REPORTAGE

villa gina

Facciata di Villa Gina (foto concessa da una fonte che chiede l'anonimato)

A Villa Gina il Liberty ha rotto la cornice decorativa ed è diventato natura. I motivi floreali, le linee sinuose, le ampie volute sono state colonizzate dalle piante rampicanti che si sono fatte strada nel cemento armato, invadendo ogni frattura. Dell’Art Nouveau, oltre ai fregi nella facciata e ad alcune sparute pitture, in via della salute 91 non è rimasto nulla. Sono invece i propositi di quel movimento artistico di fine ‘800, nato in Francia come risposta romantica all’eccessiva industrializzazione e alla fredda produzione seriale, ad essere sopravvissuti e ad aver raggiunto oggi, nella decadenza, la loro estrema conseguenza.
Lo stabile di tre piani passa quasi inosservato, schiacciato fra l’aeroporto e la zona industriale di Borgo Panigale, nascosto fra gli alti aceri e la fitta sterpaglia che cresce incontrollata in quello che, un tempo, doveva essere il vialetto d’ingresso.
Sono passati 125 anni dalla sua edificazione, da quando il conte Cosimo Pennazzi, direttore della Società Coloniale Cementi di Alessandria d’Egitto, la commissionò ad Attilio Muggia, architetto celebre per l’uso pionieristico del cemento armato ed autore di diverse opere nel territorio bolognese, una fra tutte la scalea della Montagnola. Villa Gina, chiamata così perché dedicata alla moglie del conte Virginia Lisi, si colloca all’interno del Liberty, lo stile più in voga dell’epoca, e fu progettata seguendo i precetti del suo architetto, ovvero il connubio fra la tecnica e l’arte, fra il rigore strutturale e i decori. Muggia, insieme al pittore Antonio Mosca, riprese le origini egiziane del committente attraverso decorazioni fatte di palme e papiri che richiamano quella terra desertica.
Oggi di questi propositi ne rimangono vaghe tracce negli esterni, sia nella facciata che nelle inferriate alle finestre, dove decorazioni floreali arrugginite cercano di resistere al tempo. Secondo i racconti di chi è stato dentro al palazzo, non si può dire lo stesso delle sale interne, e lo si nota sin dall’ingresso: dell’ampio salone che doveva accogliere gli ospiti non ne rimane che il ricordo, così come dei diversi elementi ornamentali che avrebbero dovuto incorniciare le stanze. In parte il problema potrebbe derivare dalle varie destinazioni che ha avuto la villa durante il ventesimo secolo: dopo che il proprietario, trasferitosi fuori Bologna, lasciò nel 1912 l’immobile alla moglie, la dimora passò a molti proprietari prima di essere venduta nel 1921 alla società “Casa di salute Villa delle Rose”. Fu in quel momento che acquisì il titolo di “Villa Flora” e che venne modificato per ospitare pazienti con malattie nervose, inserendo quelli che la relazione storico-artistica redatta dalla Soprintendenza nel 2008 definisce “corpi incongrui”, ovvero nuove ali del palazzo che non rispettano lo stile originario. Si trovano nella parte a nord, sviluppate su due livelli, e nell’attico, dove le nuove costruzioni ai lati dell’originale loggia panoramica hanno portato all’eliminazione delle terrazze che costeggiavano l’ultimo piano.
È la mancata rivalutazione che ha messo più a dura prova la resistenza dell’immobile.
Per comprendere il perché non sia ancora stato possibile un recupero dell’edificio bisogna ricostruire i tasselli mancanti della storia della sua proprietà. Dopo la società “Casa della salute Villa delle Rose”, il palazzo, con annessi i numerosi fabbricati che furono edificati tra il 36 e il 40 nel medesimo terreno, passò nelle mani dell’Ente Nazionale di Lavoro per i Ciechi, istituito nel 1934 con sede a Firenze. Tramite una legge del 4 agosto 1984 però l’ente fu soppresso, e le sue attività, come anche il suo patrimonio immobiliare, passarono al Ministero del tesoro. Ed è da qui che inizia una sequenza di eventi dalle tinte italiche. L’ente, secondo le rilevazioni catastali, rimase in liquidazione fino al 2011, anno in cui la villa divenne di proprietà di Ligestra Due, facente parte dell’omonima società finanziaria nata nel 2007 e controllata al 100% da Fintecna della Cassa Depositi e Prestiti. Nel 2020 avvenne la fusione tra Ligestra e Fintecna, e l’edificio di Borgo Panigale entrò a far parte del portafoglio patrimoniale di quest’ultima. Come confermato dalla società stessa, il sito è ancora in loro possesso. Interpellata da InCronac@, Fintecna risponde che l’immobile è attualmente in manutenzione e che, tenendo conto dei tempi della burocrazia, non vi sono ancora progetti in merito alla sua destinazione. Ma finché questi lavori di messa in sicurezza non si concludono l’edificio non può essere messo all’asta, impedendo quindi agli interessati di poter attivare un percorso di rivalutazione.
Il quartiere però è da anni che vorrebbe riappropriarsi della Villa. «I cittadini sono molto affezionati a Villa Gina, vorrebbero un rilancio» ci dice Elena Gaggioli, presidente del quartiere Borgo Panigale – Reno. «So che sono state fatte alcune opere di consolidamento strutturale per evitare danni permanenti, ma finché rimane in mano privata non possiamo intervenire». Gaggioli ha le idee chiare sulla destinazione: «Sarebbe bello realizzare ciò che abbiamo già fatto con Villa Bernaroli, edificio storico che oggi è una casa di quartiere piena di attività importanti, dagli orti urbani ad attività ricreative per anziani. Ma questo tipo di lavoro è stato possibile solo perché la proprietà dell’immobile rimase pubblica dagli anni 70».

Il parapetto in ferro della scalinata in stile Liberty all'interno di Villa Gina

E nel frattempo anche quelle sale destinate agli uffici dell’amministrazione, alle cucine e al guardaroba della Casa della salute sono oggi solo l’ombra di quello che furono. Dalle foto forniteci si può notare come le plafoniere che supportavano le luci al neon hanno ceduto e sono rimaste sospese a mezz’aria. Rette per miracolo dai vecchi cavi elettrici, sembrano installazioni d’arte contemporanea. L’incannucciato, ovvero un tipo di solaio molto diffuso in passato fatto di canne sottili intrecciate, è crollato al suolo, aprendo grossi varchi nel tetto dell’attico e permettendo così alle piante di crescere rigogliose sulla pavimentazione che, all’inizio del secolo scorso, doveva essere composta di mattonelle policrome disposte in modo da formare disegni geometrici.
Ci raccontano che i temi ornamentali egiziani e le infiorescenze in stile Liberty che adornavano le sale sono state sostituite dalla muffa, dalle tag dei writers e dalle dediche d’amore delle persone che si sono intrufolate negli anni. L’unica traccia dello stile jugendstill all’interno del palazzo si trova sulle scale, ritenute l’aspetto di maggior pregio dai tecnici della Soprintendenza. Oltre all’ampio finestrone, che vide l’utilizzo per la prima volta in Italia del vetrocemento, materiale pensato da Gustave Falconnier alla fine dell’‘800, è sopravvissuto infatti un parapetto in metallo lavorato che compone ghirigori e volute fedeli agli stilemi della moda artistica molto in voga in Europa e a Bologna all’inizio del ‘900.
Villa Gina e il suo autore si inseriscono infatti in un trend architettonico che ha lasciato un segno distintivo nella città. La diffusione del Liberty nel capoluogo emiliano fu strettamente legata a due eventi: la fondazione della società Aemilia Ars e il programma di ammodernamento urbanistico cominciato con l’arrivo dell’esercito francese nel 1796.
La soppressione di buona parte degli ordini religiosi tra il 1797 e il 1808 sconvolse l’assetto urbano della città e portò ad una rivoluzione architettonica della stessa. Di epoca napoleonica è ad esempio il Giardino della Montagnola, divenuto presto un passeggio alla moda. Lo sconvolgimento proseguì poi in epoca unitaria con l’abbattimento di vecchi palazzi e la costruzione di nuovi assi stradali, quali via dell'Indipendenza, via Rizzoli e via Ugo Bassi.
Le coordinate di sviluppo della città vennero poi delineate con il primo piano regolatore del 1889, che prevedeva, insieme ad una nuova rete viaria, l’edificazione di quartieri borghesi. Nel frattempo, precisamente nel 1898, nasce Aemilia Ars, una società fondata da Alfonso Rubbiani, famoso restauratore e letterato bolognese. Essa si ispirava al movimento artistico Arts and Crafts, l’embrionale Art Nouveau, e si occupava di produrre oggetti d’uso comune, quali pizzi, gioielli e prodotti tipografici investendo su un’estetica pregiata. La società si sciolse nel 1903, ma lasciò un segno indelebile nel panorama culturale bolognese e influenzò diversi artisti e architetti dell’epoca. Uno dei migliori esempi di art nouveau bolognese è infatti la cosiddetta "Civiltà del Villino". Opera dell’architetto Paolo Sironi, che ha acquistato nel 1905 un lotto in via Audinot, è composta da numerosi edifici residenziali che riprendono l’idea del piano regolatore del 1889 sulla creazione di una cité-jardin. I villini, in modo similare a villa Gina, mostrano linee curve ed eleganti, spesso adornate da decorazioni ispirate al mondo vegetale e floreale, con un largo impiego del ferro battuto per cancelli, balconi e pensiline.
Elementi Liberty si trovano sparsi per tutta la città: basti pensare agli affreschi di Palazzo Pizzardi in via Castiglione, alle decorazioni della galleria Giovanni Acquaderni, all’insegna del Banco di Roma in via Ugo Bassi. È in questa cornice che si inserì Attilio Muggia, veneto trapiantato a Bologna che, dopo essersi laureato con il massimo dei voti alla Scuola d’Applicazione della città emiliana nel 1885, fece presto carriera all’università diventando docente in architettura tecnica nel 1891. Figura a metà fra il passato e il futuro, fu da un lato definito “formalmente tradizionalista”, dall’altro un curioso osservatore del nuovo, interesse che lo portò a divenire rappresentante per l’Italia centrale del brevetto hennebique sull’applicazione del cemento armato. Il Palazzo Maccaferri, uno dei suoi primi lavori a Bologna, è un esempio del paradosso “muggiano”: eretto fra il 1896 e il 1899, è considerato il perfetto raccordo tra la vecchia e la nuova architettura, tra l’eclettismo di fine ‘800 e lo jugendstil che stava diffondendosi. Villa Gina, tra il rigore architettonico e l’esperimento estetico, rispecchia perfettamente questa doppia anima di Muggia.
Nell’osservare, da un lato, gli splendidi palazzi Liberty in giro per Bologna e, dall’altro, le immagini della decadenza di Villa Gina, si prova un misto di tensione e nostalgia, una sensazione che qualcuno chiama abandonalism, ovvero il fascino per gli edifici abbandonati. Questo sentimento attrattivo è sicuramente lo stesso che ha provato Pupi Avati nell’84, quando utilizzò proprio questa villa come set per uno dei suoi film, Zeder. La pellicola tratta del mistero dei “terreni k”, porzioni di territorio in cui i cadaveri tornano improvvisamente in vita, e proprio nello stabile di Borgo Panigale, fatto passare da Avati per Chartres in Francia, si risveglia il primo morto vivente. Questi elementi non fanno che alimentare l’aria di mistero che aleggia attorno alla villa di Muggia, e non è quindi un caso se ciò ha destato l’interesse della comunità urbex, persone che praticano l’esplorazione di manufatti abbandonati nel tessuto urbano, che hanno inserito le sue coordinate, insieme a una piccola descrizione, sul sito Urbexe, portale che ha mappato tutti i luoghi più misteriosi d’Europa.
Ma svanita la fascinazione per l’inquietante, ciò che rimane è un edificio storico vittima di un’impasse burocratica e privato di gran parte dei suoi elementi caratteristici, mentre i pochi ancora integri rischiano di andare perduti.

 

Il reportage è tratto dal Quindici n. 5 del 12 giugno 2025