Commercio

Negozio sfitto (foto Ansa)

 

Bologna resiste ma in regione la crisi dei negozi è allarmante, ci sono 7.029 attività sfitte. È il dato che Confcommercio regionale porta sul tavolo come prova di una crisi strutturale che sta svuotando i centri storici e, insieme, il tessuto sociale delle città. Nel 2024 gli esercizi del commercio al dettaglio hanno perso altre 666 imprese: più chiusure che aperture, un trend che dura da anni. In Italia, nello stesso periodo, sono sparite 140mila attività. E se non si interviene in fretta, entro il 2035 potrebbero chiuderne altre 114mila.

È dentro questo quadro che Bologna, pur con le sue ferite, resiste meglio del resto della regione. A dirlo è Enrico Postacchini, presidente di Confcommercio Emilia-Romagna, che inquadra così la situazione: «Le attività che fanno parte di un’associazione sono più tutelate e reggono l’urto. E Bologna rimane una città appetibile, richiesta: dopo Milano è quella che attira più investimenti, anche internazionali». Le difficoltà aumentano via via che ci si allontana dal capoluogo, dove i comuni più piccoli faticano ad attrarre capitali e a trattenere imprese.

La crisi, però, non è frutto di un unico fattore. Postacchini la definisce un’“emorragia” alimentata da burocrazia, scarsa capitalizzazione, accesso al credito sempre più rigido, e soprattutto dalla concorrenza delle piattaforme, che operano con regole diverse, e spesso più leggere, rispetto ai negozi fisici. A tutto questo si aggiunge un cambiamento profondo nelle abitudini: la pandemia, ha ridotto il tempo da dedicare alla città, molte attività che prima si svolgevano fuori casa si sono spostate più rapidamente all’interno delle abitazioni, ha reso più complicato anche un semplice giro in centro. Il contesto economico va sempre più verso un’unica direzione: «Chi sta bene sta sempre meglio, chi stava così così sta sempre peggio», sintetizza Postacchini.

E se Bologna resiste, non lo fa in modo uniforme. Ci sono quartieri che stanno pagando più di altri. A soffrire sempre più è il quartiere periferico della Bolognina, dove i cantieri e il traffico di attraversamento rendono fragile quest’area a forte densità commerciale. Anche Corticella, che sconta una minor attrattività e una struttura urbana frammentata, è a rischio crisi. E, per finire, la via Emilia Ponente, lunghissima, periferica, piena di attività ma penalizzata dai lavori e dalla facilità con cui chi guida può scegliere una strada alternativa per “evitare complicazioni”. Anche il centro storico ha sofferto, ma qui la capacità di ripresa è maggiore e i cantieri stanno finendo: «Il peggio è passato», assicura Postacchini.

Ascom, intanto, prova a rispondere con gli strumenti a disposizione: bandi a fondo perduto, garanzie sui finanziamenti, supporto tramite gli enti bilaterali, formazione per aiutare chi vuole restare sul mercato. Ma serve una strategia più ampia, soprattutto sugli affitti. «Come avviene per le attività sperdute in montagna, anche in città servirebbero politiche di crinale, vere e proprie zone franche urbane nelle aree più degradate», spiega Postacchini. L’obiettivo è evitare che la desertificazione commerciale avanzi e con essa il costo sociale che ricade sui Comuni.

Perché quando un negozio chiude non si perde solo un’attività economica: si svuota un pezzo di quartiere. Vivibilità, sicurezza, valore degli immobili, desiderio delle persone di abitare un luogo: tutto passa, inevitabilmente, dalla presenza dei servizi e della rete commerciale. «E Bologna, per restare una città viva, deve continuare a tenere aperta quella rete», conclude il presidente regionale di Confcommercio.