Le storie
Calchi delle tre statue realizzate da Michelangelo per l'Arca di San Domenico (foto di Michelangelo Ballardini)
«Tutte le mostre mostrano, ma quella di Michelangelo e Bologna in particolare è una narrazione», spiega la curatrice dell’esposizione Cristina Acidini. Sono due le storie che vengono raccontate, come due furono i soggiorni di Michelangelo a Bologna, strettamente legati alle vicende umane dell’artista e storico-politiche della penisola italica. Il primo viaggio bolognese è del 1494. A Firenze i Medici erano stati cacciati dall'arrivo dell'esercito di Carlo VIII re di Francia, che aveva fatto finire la stabilità quindicinale creata da Lorenzo il Magnifico, noto nei libri di storia proprio come "l’ago della bilancia". Michelangelo era fuggito dalla città un mese prima, fidandosi di un sogno premonitore avuto da un amico, ed era già stato a Padova e Venezia dove non aveva però trovato stabilità. Era dunque un giorno insieme a due compagni di viaggio alle porte di Bologna, fermo alla dogana. Il signore della città, Giovanni II Bentivoglio, imponeva una tassa per i forestieri che volevano entrare dentro le mura, ma Michelangelo non lo sapeva e non portava in quel momento sufficiente denaro con sé. Racconta lui stesso che passava in quel momento sul suo cavallo un nobile, Giovanni Antonio Aldrovandi, che decise per ragioni ignote a Michelangelo stesso di garantire per lui e accoglierlo in casa propria da mecenate. Buonarroti infatti aveva già intrapreso la carriera artistica a Firenze, ma non godeva ancora della fama che avrebbe raggiunto in futuro. Racconta lo storico dell’arte Vasari che Aldrovandi si faceva leggere da Michelangelo Dante, Petrarca e Boccaccio “piacendogli come toscano la pronunzia del leggere di Michelagnolo” e lo portava con sé a visitare le chiese bolognesi, dove il giovane entrò in contatto con la scuola di scultura emiliana, in particolare le statue di Jacopo della Quercia che adornano il portone di San Petronio. Venne poi introdotto in un cantiere d’arte, quello dell’Arca della Chiesa di San Domenico. Malgrado forestiero e quindi guardato con diffidenza, divenne il direttore dei lavori dopo la morte di Nicolò dell’Arca. Realizzò tre statue, San Petronio, un angelo reggi-candela e un San Procolo. L’angelo è atipico, possente, dalla capigliatura folta e pesante, una scultura della classicità greca vestita come un angelo. Anche San Procolo non segue i canoni di rappresentazione dell’epoca. Non un nobile cavaliere, ma un militare che si sta togliendo il mantello, guardando accigliato gli assalitori che lo renderanno martire. Uno sguardo identico a quello del David che avrebbe scolpito sette anni dopo, che allo stesso modo sfida un Golia che non vediamo. Lo sguardo era fondamentale per Michelangelo, che riteneva fosse la misura del valore di un uomo. Soleva dire che il bravo architetto era quello che aveva le seste negli occhi (la misura per fare gli archi); allo stesso modo in un eroe la forza doveva emergere già da come guardava.

Il San Procolo di Michelangelo e un dettaglio del suo sguardo (foto di Michelangelo Ballardini)
Passarono dodici anni, venne raggiunta la maturità artistica dallo scultore che fra Firenze e Roma realizzò La Pietà e il David, e nel 1506 rimise piede a Bologna. Aveva rotto i rapporti col Papa dell’epoca, Giulio II della Rovere, per cui avrebbe dovuto realizzare la tomba in San Pietro. Il lavoro venne annullato poco dopo l’inizio, quando Michelangelo si era già procurato marmi, assistenti e progetti. Si dice che altri artisti della corte pontificia avessero criticato il progetto, insinuando che una tomba costruita per un vivo fosse di cattivo auspicio. Inutili i tentativi di ottenere un'udienza per ricevere spiegazioni, che spinsero Michelangelo ad andarsene sdegnato da Roma. Vennero inviati messi pontifici che gli ordinarono di rientrare, ma era inamovibile. Non poterono riportarlo in Vaticano con la forza, come richiesto dal Papa, solo perché aveva già raggiunto Poggibonsi, fuori dalla giurisdizione dello Stato pontificio. I due si riappacificheranno proprio a Bologna; Giulio II, Papa guerriero creatore delle Guardie svizzere, aveva invaso con le sue truppe Perugia e la turrita cacciando i Bentivoglio. Convocò Michelangelo, complimentandosi con lui perché alla fine era riuscito a costringere il Papa in persona ad avvicinarsi a lui anziché il contrario, e dopo aver chiarito gli commissionò una statua di bronzo che lo raffigurasse, da porre sopra l’ingresso di San Petronio. Nelle sue lettere al fratello lo scultore spiega la sua difficoltà nel lavorare il bronzo e non il marmo, sua specialità, e racconta anche di una volta in cui Giulio II si recò nel suo cantiere in piazza Galvani, si sedette e stette una mezz’ora a guardarlo lavorare insieme al seguito di cardinali. Non sarà soddisfatto del suo operato alla fine, commentando che gli era uscita male, ma sarebbe potuta uscire anche peggio. Forse sorrise quando appena tre anni dopo una rivolta in città che voleva riportare al potere i Bentivoglio distrusse l’effige bronzea del papa. Bronzo che finì nelle fonderie del duca d’Este e fu forgiato nuovamente come colubrina. Probabilmente però non ebbe il tempo di pensarci. A Roma in quel momento lo occupava un' opera monumentale: la Cappella Sistina.

La calligrafia di Buonarroti in una sua lettera (foto di Michelangelo Ballardini)