L'omaggio
Ornella Vanoni (foto Teche Rai)
«Negli anni ‘70 Bologna era la mia seconda casa. Ci venivo ogni fine settimana, ospite di una cara amica a via dell’Osservanza. E poi c’era Lucio (Dalla, ndr), triste e divertente». Ornella Vanoni l’ultimo saluto alla "sua" Bologna l’ha fatto nel marzo scorso, al teatro Manzoni, cantando George Gershwin, insieme a Simona Molinari e a Malika Ayane. Insieme a Paolo Fresu e a Celso Valli, scomparso pochi mesi dopo. Una città che l’aveva accolta tra i suoi portici e tra le sue mille anime d’artista. Con l’inseparabile barboncina Ondina nei camerini, dietro le quinte, persino protagonista di un’incursione sul palcoscenico. Elegantissima e protagonista, con quell’ironia sottile e intelligente, talmente irriverente e libera che anche le generazioni più giovani avevano imparato a conoscerla e ad amarla. L’ultimo applauso del Manzoni se l’è preso tra le note della musica jazz che lei, con quel timbro inconfondibile, era riuscita negli anni a fare proprie, mescolando intensità e teatralità, leggerezza e tormenti, commozione e risate. Una carriera iniziata in quella Milano degli anni '50 che le contraddizioni e le condizioni di un’Italia appena uscita dalla guerra sapeva in qualche modo riconoscerle e, forse, gestirle. Per cercare poi di risolverle anche con la musica, tra i testi scritti da Dario Fo, da Giorgio Gaber, da Fiorenzo Carpi. Con il falso storico "Ma mi…" di Giorgio Strehler che "La Vanoni" conosce al Piccolo Teatro condividendone il genio, le luci e le ombre, diventandone compagna e musa. Interprete di quelle "canzoni della mala" che facevano ancora più effetto unite alla sua inseparabile sensualità fuori dal comune. Talmente tanto effetto che quelle "quaranta dì e quaranta nott" di "Ma mi…" sembrano davvero scritte durante la Resistenza e quasi ci si crede che la storia sia quella di un eroe. E invece era la storia di un ladro di periferia che la fantasia conquistatrice di Strehler creò da zero. Maestro insuperabile per la giovane cantante, che le diede tanto. E che forse le chiese troppo. Il primo album è del 1961. E consentiteci una volta per tutte di chiamare Ornella, “La Vanoni”, anteponendo al suo cognome l’articolo. Usanza che oggi non va più tanto di moda. Qualcuno storcerà il naso. Eppure tra i vicoli di Brera lei era chiamata così, tra i palazzi medievali di Bologna, in quelle notti folli" con Lucio Dalla, nessuno poteva fare a meno di guardarla, di indicarla: «C'è La Vanoni!». Il primo album è del 1961 e, nascosta tra quelle canzoni della mala scritte da Strehler, c'è anche la prima composizione di Gino Paoli pensata per "celebrare" le grandi mani di Ornella. "Senza Fine", che apre il lato B del long playing e sembra essere un ritratto in musica di quella che sarà la loro storia umana e professionale. Un rapporto che non finirà mai e che porterà i due artisti a ritrovarsi tante volte sul palcoscenico e in studio di registrazione. Due anni dopo, nel pieno del loro amore, esce "Che cosa c'è", un valzer che sotto l'apparenza di una melodia leggera e spensierata nasconde il tormento di un sentimento che «non posso spiegarti, non so cosa sento per te. Ma se tu mi guardi negli occhi un momento, lo puoi capire anche da te». Sono solo flash di una vita intensa che sarebbe impossibile racchiudere nelle poche righe di un testo scritto. Perché manca la melodia, manca il suono di una voce diversa da tutte le altre, mai "urlata", sempre sulla linea mediana dell'eleganza e del senso di libertà e di sincero anticonformismo. E, allora, a una carriera che esplode e che la vedrà protagonista al Festival di Sanremo, all'Appuntamento e a quell'Eternità di Don Baky, alle sonorità dei grandi autori brasiliani, fa da eco una modernità che incontra il traguardo dei sessantanni di lavoro e di musica. Ricorrenze che La Vanoni amava sdrammatizzare con l'ironia e con l'atteggiamento tipico di chi la propria vita se l'è vissuta fino in fondo. Ha saputo affrontare la scomparsa di colleghi e di collaboratori con il sorriso e la certezza di non poterli dimenticare. Come Celso Valli, bolognese, morto a luglio. «Mi piaceva molto andare alla Fonoprint (uno studio di registrazione della città fondato nel 1976 ndr) con l'emozione di ascoltare l'arrangiamento di Celso a un mio brano. Erano straordinari e solo lui era in grado di realizzarli». Con Lucio Dalla aveva duettato su una versione jazz di "Senza Fine", mescolando la linearità della sua intepretazione ai voli melodici e alle improvvisazioni ben studiate di quell'uomo che lei amava definire come «portatore di luce». E poi le esibizioni con Gianni Morandi, al fianco di Raffaella Carrà nei varietà dei tempi d'oro, la “Calma rivoluzionaria" con Samuele Bersani, “Vivere" di Vasco Rossi, ultimo brano inciso e ancora inedito. Note e accordi che si aggiungono al cordoglio dei suoi colleghi. Da Bersani («Perdo l'amica più vitale, curiosa, ironica, profonda e irriverente che abbia mai avuto ma se di là c'è veramente un altro mondo, ora Ornella è già insieme a Lucio. L'unica consolazione è questa»), a Vasco («Ciao mitica Ornella, grazie per la voce e per l’ironia costante»). Cesare Cremonini ricorda una notte veneziana «seduti a un tavolino di un bar, quando decidemmo di fermarci più a lungo. Parlammo solo di amore». E Laura Pausini: «riposa in pace meravigliosa Ornella, la tua voce, la tua personalità, la tua luce, non ci lasceranno mai. Unica». «L'enorme e doloroso silenzio» di Renato Zero, autore, per lei, di "La vita che mi merito" e di "Ornella si nasce". La foto in bianco e nero di Gino Paoli, il saluto di Iva Zanicchi («Con te scompare una grandissima artista»), il saluto della sua Milano alla camera ardente allestita al Piccolo Teatro. Negli ultimi anni, con la sua irriverenza e con le sue uscite sferzanti aveva aggiunto alla musica anche il successo virale sui social network, perfettamente a suo agio tra meme e mode passeggere. Prendendosi gioco dell'età che avanza, degli innegabili acciacchi che la vecchiaia porta con sé. L'autoironia come mezzo e antidoto alla tristezza e alla depressione, il flusso libero dei pensieri e la rivendicazione di poter dire ciò che si vuole, quando si vuole. Alla Vanoni si perdonava tutto, si passava sopra anche a una certa dose di antipatia scherzosa che si trasformava istantaneamente in una risata. Sarà più difficile perdonarle di «non essere arrivata a Natale», come amava dire ogni anno, poco prima delle feste, a Fabio Fazio nella trasmissione "Che tempo che fa". Questa volta non ci è arrivata davvero e a lei, che amava così tanto gli abbracci e il calore umano, non si può fare altro che sussurrarle che «non c'è niente di più triste, in giornate come queste, che ricordare la felicità. Sapendo già che è inutile ripetere chissà, domani è un altro giorno si vedrà. Domani è un altro giorno. E si vedrà».