sanità

Nell'immagine una corsia d'ospedale (foto Ansa)
La carenza di medici di base è ormai una realtà tangibile in Emilia-Romagna. Dopo l'insuccesso del recente bando regionale – 349 candidati per 1.434 posti vacanti – la situazione rischia di diventare critica. Sul tema è preoccupato il commento di Salvatore Bauleo, segretario provinciale della Fimmg (Federazione italiana medici di medicina generale) di Bologna.
Anche a Bologna il bando per i medici di base ha registrato numeri molto inferiori alle aspettative. Come descriverebbe la situazione attuale e quali sono le principali cause della carenza?
«Purtroppo anche a Bologna l’offerta è stata molto più bassa rispetto ai posti disponibili. È una condizione che denunciamo da tempo come sindacato: la medicina generale è in forte sofferenza. Il carico burocratico è esagerato, spesso insensato, e toglie tempo prezioso alla clinica. È da trent’anni che si parla di ridurre questo peso, ma invece aumenta anno dopo anno. Inoltre, oggi abbiamo strumenti e possibilità per fare prevenzione che prima non esistevano, e questo comporta un ulteriore aumento del lavoro di chi può farla».
Quali potrebbero essere le soluzioni per alleggerire questo carico e rendere più attrattiva la professione?
«Un passo importante sarebbe sostenere di più il medico nella sua auto-organizzazione, anche sul piano economico. I costi del personale, per esempio, oggi ricadono quasi interamente sul singolo medico: ci vuole un maggiore contributo da parte delle aziende sanitarie. È un lavoro che richiede grande impegno, flessibilità e auto-organizzazione, eppure spesso manca il sostegno adeguato. E c’è ancora chi pensa che il medico di base “guadagni tanto e lavori poco”. Se fosse vero, tutti lo vorrebbero fare. La realtà è ben diversa».
La riforma che porterebbe i medici di famiglia dalla convenzione alla dipendenza pubblica potrebbe aiutare la medicina generale?
«Assolutamente no. Perderemmo la nostra autonomia, sarebbe al contrario di un aiuto, la fine della medicina generale. Il rapporto fiduciario che abbiamo con i nostri pazienti, la vicinanza anche fisica che abbiamo con loro, la flessibilità nell’adeguare il nostro lavoro alle necessità, verrebbe tutto meno. Frapporre la struttura aziendale fra noi e gli assistiti spezzerebbe il legame diretto essenziale. E ricordiamo che i sondaggi ci dicono che ancora oggi i medici più graditi in Italia sono i medici di famiglia, proprio in virtù della loro vicinanza. Non risolverebbe in nessun modo il problema della copertura del territorio causato dalla carenza di medici, anzi peggiorerebbe la situazione».
In che modo?
«L’obiettivo vero di questa riforma è spostare i medici di medicina generale dai loro ambulatori alle Case di comunità finanziate col Pnrr, per non lasciare che rimangano cattedrali vuote. Ma concentrare i medici in questi luoghi intacca ulteriormente l’essenziale capillarità territoriale che sarebbe l’obiettivo fondamentale del medico di famiglia. E nelle zone dove il medico non ci sarà più perché si è dovuto spostare a chilometri di distanza il cittadino sarà costretto a rivolgersi alla sanità privata. Un anziano con malattia cronica non avrà più chi lo segue vicino a casa e così via».
Perché, secondo lei, i giovani non scelgono questo percorso?
«Perché vedono la realtà nei tirocini pre-laurea e si rendono conto che è un lavoro gravoso, spesso poco valorizzato. È diventato meno attrattivo, e finché la politica non investirà davvero nella medicina generale – non solo a parole – sarà difficile invertire la rotta. In Emilia-Romagna qualcosa si è fatto sul tema del personale, ma sul fronte burocratico la situazione è rimasta invariata: un fallimento completo».
C’è anche un problema per i cittadini: trovare o cambiare il medico di base è sempre più difficile. Perché?
«Perché i medici sono troppo pochi. Noi abbiamo ambulatori con moltissimi pazienti, e la libera scelta del medico, che è un diritto, nella pratica non è più garantita. Non ci sono alternative, e quindi il cittadino non può cambiare medico neanche se lo vorrebbe. Tutto questo deriva da una programmazione sbagliata, che andava fatta trent’anni fa. Noi lo dicevamo, la Fimmg lo segnalava. Si conosce l’età dei medici, si sa quando andranno in pensione, non era difficile prevedere il fabbisogno, sono state fatte delle previsioni sbagliate e ora è difficile cambiare le cose».
È anche colpa del numero chiuso a medicina?
«In parte sì. Il numero chiuso doveva evitare la pletora, non generare carenze. C’era una via di mezzo, ma si è sbagliato. Per anni sono stati offerti pochi posti nei corsi di formazione specifica in medicina generale. Ora stiamo pagando quelle scelte. E i cittadini, che ora fanno fatica a trovare un medico, ne stanno vivendo le conseguenze più gravi».
Cosa rischiamo a medio termine se la situazione non cambia?
«Se andiamo avanti così, rischiamo un vero e proprio tracollo della medicina generale. Secondo alcune stime la carenza dovrebbe attenuarsi tra tre o quattro anni, ma nel frattempo bisogna assolutamente sostenere chi è in servizio. Ridurre la burocrazia è la priorità. Oggi i medici perdono tempo dietro a cavilli: pazienti che tornano perché una prescrizione è stata rifiutata al Cup per motivi incomprensibili, o perché non riescono a prenotare una visita, questo è diventato insostenibile».
Che effetto ha tutto questo sulla qualità dell’assistenza?
«Un effetto a catena. Il sistema si inceppa, si generano inefficienze, e il rapporto con il paziente ne risente. Quando la sanità entra in difficoltà, il medico di base si trova a gestire anche il disagio del sistema. Questo lavoro dovrebbe essere centrato sulla clinica, ma oggi siamo travolti da incombenze che ci distolgono da ciò che conta davvero».