l'intervista
Roberto Grandi (foto di Federica Cecchi)
Ha vissuto sulla sua pelle l’evoluzione di Bologna, «una città che possiede una grande ricchezza culturale». Definisce Umberto Eco «un intellettuale onnivoro, figura ormai estinta». Roberto Grandi, studioso di comunicazione all’Alma Mater per oltre quarant’anni ed ex prorettore, è stato assessore alla cultura dal ’96 al ’99 e poi presidente di Bologna Musei. Ha curato l’immagine della città, che «è passata dal non avere turisti a dover gestire il flusso di visitatori senza perdere la percezione di essere vera». Il sindaco Lepore? «Ha fatto molto, ma in pubblico appare distante». «Meloni ha una leadership efficace, Schlein è frenata dalle differenze interne». Trump? «Tende a trasformare la democrazia in autocrazia»
Ha condiviso una vita al fianco di Umberto Eco. Che ricordi ha?
«Con lui ho coltivato una grandissima amicizia, ed è uno dei motivi per cui sono rimasto a Bologna. L'ho conosciuto nel 1972, quando abbiamo iniziato insieme al Dams e siamo passati a Comunicazione, lui semiotico, io sociologo. Era un intellettuale onnivoro, come ormai non se ne vedono più: parlava con competenza di ogni tema e citava a memoria qualsiasi cosa, persino le note della sua tesi di laurea».
A febbraio ricorrono i dieci anni dalla sua scomparsa. Qual è il modo migliore per celebrarlo?
«Rispettando le sue ultime volontà. Prima di morire, lasciò scritto che per dieci anni non si dovesse parlare di lui, per capire se i suoi lavori avrebbero avuto ancora valore. Ce l'hanno. Per questo ho proposto alla fondazione legata alla famiglia di realizzare con "Bottega Finzioni" una maratona di 24 ore. In tanti nel mondo avranno modo di raccontare chi è stato Umberto Eco».
Passando alla sua esperienza accademica, come sono cambiati negli anni i giovani e gli studenti?
«Oggi c’è più ansia per il dopo, per il futuro, che anni fa era molto più mite. Però gli universitari di oggi sono anche cosmopoliti, partono dall’Italia, esplorano l’Europa e il mondo intero. Inoltre, gli studenti non hanno più davanti un foglio bianco da cui partire come avevamo noi. Partono dalla risposta che ChatGpt ha dato alla loro richiesta: strumenti potenti a cui fare domande intelligenti, avendo la capacità di arricchire la risposta».
L'intelligenza artificiale porta più rischi o benefici?
«Finora abbiamo avuto a che fare con una IA generativa, che ha bisogno di comandi e dati umani per funzionare. Al contrario, quando ci sarà una IA “agente”, la vedremo prendere le sue decisioni in maggiore autonomia, ed è qui che si avranno i rischi più grandi. Nel caso dei media, c’è il rischio di un maggior sfruttamento dei contenuti umani, considerati una sorta di materia prima, e una più difficile distinzione tra vero e falso».
Ha insegnato negli Usa e in Cina: che differenze ha notato tra gli atenei italiani e quelli stranieri?
«Negli Stati Uniti ci sono università scarse e altre di grande prestigio, specialmente private, dove nascono fucine di talenti. In Cina lo sviluppo dell’educazione e della ricerca risponde alle decisioni del Partito e del Governo che anni fa hanno deciso di investire ingenti risorse nello sviluppo della innovazione tecnologica che oggi ha raggiunto i livelli più importanti del mondo. Anche gli atenei italiani fanno sbocciare ottimi professionisti, ma manca il giusto supporto per mantenerli nel nostro Paese».
Qual è la soluzione?
«Una politica didattica e di ricerca, anche con fondi europei, che sostenga i centri d’eccellenza sull’esempio del Tecnopolo, qui a Bologna».
Da esperto di comunicazione, come si informa e cosa legge?
«Per informarmi impiego due ore circa al giorno, che devo ridurre perché sono anche io un onnivoro. Prima leggo i giornali a cui sono abbonato, cioè “Repubblica” e “Corriere della Sera”, e poi ci sono varie newsletter. C’è “Internazionale” per l’estero, “Artribune” per la cultura, ma anche “Huffington Post”, “Linkiesta”, “Doppiozero”, “Stroncature”, “Post” e tante altre che soddisfano i miei interessi. Mi informo anche a livello locale, per esempio attraverso “Cantiere Bologna”».
Che differenza c'era tra la politica degli anni ‘90 a Bologna rispetto a quella di oggi?
«Negli anni ’90 c’era il caos post Tangentopoli, ma tra i membri del Pci/ Ds di Bologna rimaneva l’idea che la città fosse “cosa loro”, rotta poi con Giorgio Guazzaloca alle elezioni del 2000. Una sconfitta provocata anche dagli attacchi interni alla giunta Vitali. Oggi, c’è consapevolezza che ogni carica politica è contendibile, quindi la ricerca di una alternativa a Matteo Lepore si muoverà tra un candidato politico o un civico che sappia cavalcare il populismo estremo, come ha fatto Roberto Vannacci a livello nazionale».
Che ruolo hanno i social network in questa trasformazione?
«Prima i media influenzavano la politica, mentre ora è il contrario. Questo succede proprio grazie ai social che permettono alle figure pubbliche di dialogare direttamente con gli elettori, bypassando gli organi di comunicazione che sono costretti a inseguire i social. Di conseguenza, anche la solidità stessa dei partiti si è indebolita parecchio».
Qual è il suo giudizio sull'operato del sindaco Lepore?
«Ha messo in campo molti progetti per la città, assumendosi la responsabilità di portarne avanti e ultimarli, come non era avvenuto da decenni. Ciò che lo penalizza, però, è la percezione di “sindaco decisionista” che lo circonda, da uomo solo al comando che impone le sue decisioni».
Perché questo accade?
«Principalmente perché portare avanti cambiamenti genera dissenso da parte dei cittadini che non ne vedono il vantaggio immediato proprio. Poi in pubblico Lepore non riesce a esprimere quell'empatia che possiede nel privato ed è percepito molto distante. Il paradosso è che ha promosso molte occasioni di ascolto in prima persona, come le “Settimane del sindaco” nei quartieri, che forse faticano a diventare processi partecipativi diffusi».
Questa percezione del sindaco è destinata a rimanere?
«Credo di conoscere bene i bolognesi: giustamente brontolano e criticano, ma se vedranno risultati concreti daranno un giudizio positivo a Lepore. A differenza di altri sindaci, tutto si può dire di lui tranne che non faccia le cose. Almeno tenta di farle».
A quali altri sindaci si riferisce?
«Penso a sindaci di livello nazionale e, a Bologna, a Sergio Cofferati, che un anno dopo l’elezione si sentì a disagio in questo ruolo. Per Virginio Merola sono stati più i progetti programmati per il successore che quelli completati nel mandato. Scelte importanti vanno impostate subito nel primo mandato, altrimenti non c’è tempo per completarle».
Si è discusso sulla mancata attivazione del corso di filosofia dell’Alma Mater per 15 ufficiali dell'Accademia militare di Modena. Cosa ne pensa?
«La politicizzazione del caso è avvenuta perché esponenti di centrodestra hanno collegato questa decisione alle pressioni del Collettivo universitario autonomo, che ha definito la richiesta dell’Accademia militare un tentativo di armare l’ateneo. Forse il Dipartimento e l’Ateneo non sono stati così tempestivi a comunicare come fosse una decisione autonoma e non presa su pressioni esterne».
L'Università e Bologna hanno comunque subito attacchi dalla maggioranza. Crede che la città sia presa di mira dal Governo?
«Non credo a una cospirazione programmata. È “regola” del fare politica oggi tentare di strumentalizzare ogni occasione e non mi meraviglia che la stessa Giorgia Meloni sia intervenuta su questo caso. Ricordiamo che rispetto a tante altre città italiane a Bologna si voterà tra un anno e mezzo e questo fatto - unito al dibattito su tram, passante, alberi abbattuti e proteste pro Pal - rende più e strumentalizzabile ciò che avviene in questa città».
Cosa pensa della strategia di Giorgia Meloni?
«La leadership di Meloni, socia di maggioranza assoluta della coalizione, si manifesta nel lasciare emergere a livello discorsivo le grandi diversità degli alleati per poi decidere in prima persona. Sa che ciò che tiene unita la coalizione del centrodestra è più la possibilità di gestire il potere come valore in sé che la condivisione di un programma».
In tutto questo che ruolo hanno i vari ministri? «Sono i gaffeur pilotati della presidente del Consiglio: politici che creano scalpore mediatico su temi sensibili con dichiarazioni estreme e controverse, per esempio su famiglie omosessuali, aborto, sostituzione etnica, nella consapevolezza che anche quando vengono smentite hanno già ottenuto una loro visibilità».
Cosa pensa, invece, di Elly Schlein all’opposizione?
«Anche Schlein ha una coalizione con differenze interne, ma non ha al momento l’autorevolezza per prendere decisioni accettate da tutti. Ogni componente pensa soprattutto ad affermare la propria identità specifica, il che rimanda il tema della leadership al momento della formazione della coalizione elettorale. Da qui le ragioni di una minore efficacia nella comunicazione attuale».
La figura e la comunicazione di Donald Trump?
«La sua leadership politica si configura come una transazione commerciale basata sulla volontà del più forte. Da questo punto di vista ultraliberista ogni regolamentazione al suo potere è considerata un ostacolo da abbattere. Con lui stiamo andando verso un “bye bye democracy”, perché quella che abbiamo conosciuto come democrazia ormai è sempre più minoritaria e fragile. Dunque mi chiedo: qual è la linea simbolica che separa la democrazia dalla autocrazia? E questa linea è già stata superata?».
Qual è la sua opinione sulla situazione culturale della città? Che immagine ha costruito Bologna di sé stessa?
«È una città che possiede una grande ricchezza culturale distribuita nel territorio tra istituzioni e associazioni, con alcune eccellenze internazionali come la Cineteca. Quando nel 2013 abbiamo realizzato il progetto "Bologna City Branding" abbiamo offerto la percezione di una "città vera". Oggi si devono gestire i crescenti flussi di turisti per mantenere quest'immagine. Il rischio di una politica dei grandi eventi, legata in ogni caso a investimenti non pubblici che sul nostro territorio faticano a emergere, è di non riuscire a comunicare l’identità della città, omogeneizzandola a tante altre».
Lei è stato coordinatore del Comitato "Bologna 2000". Cosa è rimasto?
«L’idea alla base della nomina era la democrazia culturale, cioè promuovere una cultura aperta a tutti e come risorsa strategica dello sviluppo della città. A parte strutture quali il Museo della Musica, Santa Cristina e altre, la centralità della cultura non era nelle corde dell'amministrazione Guazzaloca».
In che senso?
«"Bologna 2000" è stata utilizzata più come una sequenza di eventi, più o meno grandi, che non hanno sedimentato valore per il futuro. Un peccato, perché città come Glasgow hanno fatto della Capitale europea della cultura l’avvio del loro sviluppo».
Che ruolo hanno i musei civici bolognesi? Come potrebbero migliorare?
«Servono soprattutto ad approfondire quella che è l'identità di una città, sia attuale che passata, verso i turisti e i residenti. Rispetto ad altre città sono scarsi o assenti i contributi di fondazioni e privati per valorizzare gli allestimenti e i percorsi interni».
La collocazione del museo Morandi è un tema che si trascina da anni. Pensa che si sposterà mai dal Mambo?
«Bologna dovrebbe avere il proprio Museo monografico su Morandi, uno degli artisti più importanti del secolo scorso. Il sindaco Lepore ha pubblicamente dichiarato di lavorare sull'ipotesi di spostare il museo Morandi al secondo piano di Palazzo Pepoli liberando lo spazio del MAMbo».
Pensa che l’attuale assessore alla Cultura Daniele Del Pozzo stia facendo un buon lavoro?
«Dà spazio all’ascolto, rafforza le relazioni con le varie realtà culturali sapendo che l’assessore alla cultura è più un regista che indirizza lo sviluppo della cultura del territorio verso la qualità e l’inclusione senza prevaricare».
Qual è il suo giudizio invece sul ministro della Cultura, Alessandro Giuli?
«Si è fatto notare per le sue uscite un po’ estrose e sta indirizzando la politica culturale del governo attraverso nomine che non sempre rispondono al criterio della competenza e norme che enfatizzano un approccio che valorizza più le variabili quantitative che quelle del rischio culturale, che dovrebbe essere caratteristico delle istituzioni».
È vero che c’è una certa idea di cultura promossa dalla destra al governo?
«La destra avrebbe, per sua stessa ammissione, un pantheon di autori diriferimento: D'Annunzio, Marinetti, Ezra Pound, Evola, allargandosi fino a Celine, Nietzsche, Tolkien, Oriana Fallaci e, ora, un Pasolini "conservatore". Non vedo chi stia portando avanti un lavoro di sintesi per una eventuale egemonia culturale di destra».
Lei è un grande tifoso del Bologna. Ci racconta della sua passione per la squadra?
«Il mio destino è sempre stato quello di essere tifoso del Bologna. Mio padre mi portava allo stadio già quando avevo un anno, ero a Roma all’ultimo scudetto del 1964. In questi anni ho visto una società che ha raggiunto una nuova dimensione, grazie a Joey Saputo, Claudio Fenucci, ai direttori Di Vaio e Sartori. Hanno consolidato un club che ha scelto giocatori validi e, ora, un allenatore come Italiano che mi piace per il suo gioco sfrontato».
Quest’anno il Bologna può vincere lo scudetto?
«Se giocasse solo il campionato, avrebbe buone possibilità di vincere lo scudetto, però ora come ora arrivare tra le prime sarebbe già ottimo. Dopotutto, con tre competizioni, più la Supercoppa a Riad, arrivare primi è difficile. Piuttosto, perché non puntiamo a vincere l’Europa League?».
La redazione si è interrogata sull'opportunità di farle questa domanda. Il 27 febbraio 2020 ci fu l'incidente che portò alla morte del nipote di Romano Prodi. Lei in auto, lui in bici. Se la sente di dirci come questo ha influenzato la sua vita?
«È un tema intimo e personale che non ha parole adeguate per essere espresso. È stato il giorno che ha causato ferite non rimarginabili nella famiglia di Matteo e in me. Un dolore che va oltre l’umano sapere di essere stato parte attiva di una tragedia così profonda, a prescindere dal fatto che prima di svoltare a sinistra ricordo di avere guardato il tratto di strada in salita di fronte a me senza vedere o percepire alcuna presenza. Rimane la domanda a cui nessuno può rispondere sul perché sia capitato a noi due di essere in quel momento in quella curva, io che salivo in auto alla "Bologna Business School" per la decisione di sospendere le lezioni per Covid, Matteo che scendeva dai colli sulla sua bici da corsa, in un giorno in cui la scuola era chiusa...».
L'intervista è stata pubblicata nel n.10 del Quindici del 18 dicembre