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Il primo numero del Resto del Carlino (tutte le foto dono tratte dall'archivio del giornale) 

 

E se a qualcuno è venuta in mente una frase del celebre fotografo giramondo Henri Cartier Besson, per un attacco a effetto del pezzo che annuncia la mostra fotografica dei 140 anni del quotidiano bolognese (a Palazzo De' Toschi dal 19 dicembre al 14 gennaio), fondato il 20 marzo 1885 dai magnifici quattro (Cesare Chiusoli, Alberto Carboni, Francesco Tonolla e Giulio Padovani). Ecco che ad altri potrebbero tornare alla mente i versi di una canzone di Ivano Fossati, Mio fratello che guardi il mondo, così indicativa della necessità di aprirli, quegli occhi, sugli avvenimenti che circondano e, alle volte, affliggono il mondo contemporaneo, quello passato prossimo e quello ancora più remoto. In questo caso, il mondo che per centoquarant'anni si è dipanato come una grande matassa sul filo della storia, tra eventi che hanno segnato decenni di guerre, di scoperte scientifiche, di rinascite e, di nuovo, di cadute. Momenti fissati definitivamente nelle immagini e nelle notizie che il quotidiano ha ospitato tra le sue pagine e che, oggi, sono esposte nella Sala Convegni della Banca di Bologna, nella selezione curata dal vicedirettore Valerio Baroncini e da Claudio Cumani. Le foto che il Quindici ha selezionato sono una sommaria anteprima delle tante altre che si potranno vedere sui pannelli progettati da Paper Paper, che ha realizzato anche uno splendido catalogo che ripercorre, tra testi e immagini, gli eventi più significativi di questi primi centoquarant'anni di lavoro. A questa prima pagina fa da sfondo l'altrettanto prima pagina del primo numero del quotidiano, in quel 20 marzo del 1885 che ancora utilizzava come moneta avente corso legale proprio il carlino. Un sigaro costava otto centesimi e con il resto della moneta da dieci era facile abbinare la vendita del paginone unico, che si poteva comprare quasi senza accorgersene. Da qui il nome, che rimase invariato anche quando al carlino si sostituì la lira e poi l'euro. Gli Occhi sul Mondo, qui inizia con una forte immagine delle devastazioni della Grande Guerra, in quel 1915 che per la prima volta vide affrontarsi le maggiori potenze mondiali con nuovi mezzi e nuove tecnologie. Un periodo devastante che, con un salto temporale, porta al 1937, anno della morte di Guglielmo Marconi, lo scienziato inventore del radiotelegrafo. E, poi, la liberazione di Bologna del 1945, la tragedia del Vajont del 1963. Il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro in via Caetani, la strage alla stazione di Bologna, la caduta del Muro di Berlino. La morte di Alex Zanardi e l'attacco all'America dell'11 settembre. Le nuove brigate rosse e l'assassinio di Marco Biagi. La scomparsa di Luciano Pavarotti e di Lucio Dalla. La pandemia di Coronavirus e la guerra israelo-palestinese. Istantanee che parlano da sole e che, nelle sale di esposizione, sono stampate su grandi teli sospesi che scendono da strutture a bobina, come a ricordare le rotative e il perpetuo movimento della stampa.

 

 La liberazione di Bologna, 1945

 

 

                                                                               

La strage della stazione di Bologna, 1980

 

Tra proiezioni e contenuti multimediali, il percorso di visita è un immersione nelle pieghe di eventi che dal bianco e nero arrivano fino al colore, in una lunghissima sintesi di quello che lo storico Eric Hobsbawn ha definito il Secolo Breve. Talmente intenso e a tratti devastante da non poter essere racchiuso nelle maglie strette di una rassegna. Eppure la mostra riesce a superare la barriera della superficialità e dell'approssimazione, rifuggendo dalla retorica e dai luoghi comuni. Dando spazio a quello che le stesse immagini, anche da sole, anche senza didascaliche spiegazioni, riescono a trasmettere in termini emozionali e divulgativi. La potenza degli scatti di cui il giornalismo non potrebbe mai fare a meno. Ancor di più in un'epoca, come quella attuale, che dell'immagine ne ha fatta una ragione intima di sopravvivenza, in una realtà che reclama a gran voce la sua necessità di essere sondata, tra testo e fotografia, per una massima comprensibilità possibile. Affiancando e unendo all'approfondimento testuale quello visivo, così dirompente ed espressivo dei dettagli e dei sentimenti che i grandi eventi della storia, in un moto perpetuo, come quello delle rotative, scatenano nella mente degli uomini del presente e di quelli del futuro. Un futuro che il giornalismo e la fotografia, uniti e sovrapposti, possono aiutare a capire meglio. La frase di Cartier-Benson è venuta in mente a Cumani, ed è una sorta di guida, di monito e di speranza. Una linea che si unisce e interseca la matassa della storia. Senza la presunzione di fissare l'immagine nel crisma della definitività, ci si accorge di una linea mediana tanto reale che riesce a coinvolgere e ad abbracciare ciò che l'essere umano è potenzialmente in grado di realizzare, di raccontare e di approfondire. Quello che un buon fotografo, in fin dei conti, deve cercare di fare. «Mettere sulla stessa linea di mira la mente, il cuore e l'occhio. Perché fotografare è un modo di vivere».

 

 Il disastro del Vajont, 1963

 

                                                                                                               L'attacco alle Torri Gemelle, 2001

 

 

L'articolo è stato pubblicato nel n.10 del Quindici del 18 dicembre 2025