L'omaggio

Milva (foto Fondazione Insula Felix)

 

Bologna, Milva, se l’è sempre portata nel cuore. Sin da quel lontano 1958, ancora poco conosciuta, ancora una ragazza di campagna, ancora negli occhi le immense distese dei prati e delle paludi della provincia ferrarese. Goro, quella famiglia Biolcati che dei sacrifici, delle privazioni e del sostegno reciproco ne avevano fatto una ragione quotidiana e indispensabile di vita. Nel cuore sin da quel lontano 1958, vestita di bianco, i capelli corti alla maschietta, impacciata davanti all'obbiettivo del fotografo in una delle tante balere che andavano di moda all'epoca. La sua carriera inizia così, come tante altre, vincendo un concorso di canto organizzato alla Bolognina. Con gli abiti pensati, cuciti e confezionati da sé, appassionata di quell'arte della sartoria trasmessa dalla madre Noemi, che in una delle poche stanze della casa di famiglia realizzava corredi e vestiti per le donne del paese. Un paese che a Milva diventerà in poco tempo subito stretto, per una carriera che la travolgerà senza preavviso, senza possibilità di fermarsi mai. Oggi, di quella carriera, a quattro anni di distanza dalla morte, un nuovo album di registrazioni inedite è un po' una sintesi. Inevitabilmente sommaria e imprecisa ma tanto basta per ricordare, almeno per frammenti, le emozioni e le passioni che nella sua vita erano stati il motore e il risultato di una vocazione, quella per la musica e per il teatro, per la ricercatezza, per il senso profondo del bello. E per quei limiti continuamente sfidati non tanto a essere superati, quanto a essere guardati con rispetto e sospetto, in una sfida contro se stessi e contro gli inganni e le illusioni della propria storia.

Una storia che sembra di ritrovare in un nuovo brano mai pubblicato, scritto da Enrico Ruggeri, Amore vista pioggia, che ancora una volta racconta il punto di vista di una donna in cerca di una comprensione umana che sia reale, non frutto di calcoli opportunistici, di convenienza e di stanca abitudine. La voce a tratti sofferta di Milva, la rabbia per quello che "non assomiglia a niente che sia amore", "i silenzi di parole" e l'ultimo disperato tentativo di ricercare un contatto con la persona che si crede di amare. "Mi passi il sale? Così almeno ci dobbiamo toccare. Questa pioggia non sarebbe così fredda come noi, però siediti, è pronto da mangiare". Un'istantanea fredda e cruda sulla realtà che spesso si crede di non poter guardare e accettare, l'istinto di libertà e di leggerezza che forse Milva, nella sua vita reale, lontana dai riflettori, lontana dagli ammiratori e dai teatri, aveva sempre cercato di raggiungere. «Mia madre - racconta la figlia Martina Corgnati, critica e storica dell'arte che ha donato all'Università di Bologna l'archivio personale dell'artista - è stata per me una donna di grande stimolo. Ci siamo ritrovate e riscoperte quando io ero già un'adolescente e mi ha mostrato le infinite possibilità di muovermi nel mondo». Un mondo che Milva, da quella prima vittoria al concorso di quartiere del 1958, comincerà a scoprire ben presto. A Torino conosce Maurizio Corgnati, regista e storico dell'arte, e proprio tra i grandi viali sabaudi della prima capitale d'Italia metterà le sue radici. «Vivevamo tutti insieme, la famiglia di mia madre e quella di mio padre, in una grande casa della Crocetta (uno dei quartieri bene del capolouogo piemontese n.d.r.).

Eravamo borghesi, certo, ma consideri che l'appartamento non aveva neanche il riscaldamento centrale. Mia madre non era ancora la Milva che pochi anni dopo conosceranno tutti e io vissi la mia infanzia e la prima adolescenza vedendola poco». Il tempo è tiranno e non si può controllare, le luci della ribalta si accendono sempre più potenti su quella ragazza di Goro che sta cambiando. Anche nello stile, nella pettinatura, in quel colore rosso che prenderanno i suoi capelli castani, consacrandola definitivamente nell'immaginario glamour e artistico di un paese che, all'inizio degli anni sessanta, ancora cantava i casti amori e "le mamme del mondo", "i vecchi scaproni" e le "mariete". Come quelle di Gino Latilla che affiancherà un'impacciata Milva per la prima volta sul palco di Sanremo nel 1961, terza classificata con Il mare nel cassetto tra "una conchiglia, due stelle, tre gocce di mare blu e un cavalluccio marino". Ingenue immagini che si uniranno al desiderio di un ritorno in Tango italiano, sempre a Sanremo l'anno dopo, tra le nostalgie di un sentimento lontano e le note, i profumi e lo straniamento di un paese esotico, dove nulla si riconosce e poco assomiglia a ciò che si vuole davvero. Un sentimento che nella sua lunga carriera Milva, forse, proverà davvero.

Combattuta tra la necessità di superare continuamente se stessa, la propria voce, le proprie forze e i propri limiti. E l'altrettanto necessario bisogno di fermarsi, di guardare dentro i propri affetti, le ansie e le paure, spesso ignorate e messe a tacere dagli ansiolitici e dall'indomabile distanza tra la realtà della persona e quella del personaggio. Uno struggimento che diventa arte, prima, ancora a Sanremo nel 1968 con Canzone di Don Backy, poi, al fianco di un uomo che, di lei, divenne musa e mentore, affascinante e affascinato, sinonimo e contrario. Giorgio Strehler che, dal palcoscenico del Piccolo Teatro, la rese una delle migliori interpreti del teatro e della poesia di Bertolt Brecht, aprendole i confini di un'Italia troppo antica e spalancandole le porte dei grandi teatri internazionali. La Germania, la Francia, la Spagna, l'Argentina, l'amato Giappone. Un cartellone che non avrà quasi mai una sua conclusione, fino agli ultimi anni di vita della cantante. «Sa qual è il più grande insegnamento che mi ha trasmesso mia madre? La leadership. Intesa come assunzione profonda e completa di responsabilità. Una responsabilità che consente di prendere scelte consapevoli e in cui si crede davvero. Scelte di vita e di progetto di cui poi non ci si pente». Scelte che, nel bene e nel male, hanno caratterizzato la vita di Milva, apparentemente contraddittorie anche nella selezione del proprio repertorio, ma in fondo frutto di quell'attitudine che un'artista non solo deve possedere, ma deve probabilmente perseguire con decisione e ricercare continuamente, anche a costo di pagare un prezzo molto più elevato di quanto si sarebbe immaginato. L'attitudine alla contaminazione e alla mescolanza di stili, di sonorità e di temi antitetici e paradossali nella loro varietà e diversità. Vicina al socialismo e al femminismo sentito e non solo gridato nelle piazze, Milva trascorrerà gli anni della contestazione e del terrorismo riflettendo sulla società dell'epoca e sulle idiosincrasie spesso pretestuose di un mondo in perenne cambiamento. «In questo senso, mia madre era una vera rivoluzionaria. E guarderebbe con sospetto alla gender correctness attuale, a mio parere quanto di meno lucido e davvero femminista possa esistere. In passato il lavoro culturale era importante e centrale, sia che tu facessi la cantante sia che tu ti occupassi di arte. Con la cultura si possono risolvere molti problemi, ancor di più nella società di oggi, dove è tutto un po' più superficiale e attento più che altro alle apparenze». Milva quelle apparenze le avrebbe rifuggite attraverso la musica, attraverso le riflessioni e il dialogo con un altro artista e amico, conosciuto agli inizi degli anni '80, Franco Battiato, autore di quell'Alexanderplatz cantata poi nel 1990 a Berlino Est, dopo la caduta del Muro, davanti alla porta di Brandeburgo finalmente aperta al mondo.

Un mondo che ancora una volta la cantante avrebbe sfidato per tutti gli anni '90. Uno spettacolo dietro l'altro, tra una partecipazione in televisione e le ore passate in sala di registrazione, la collaborazione con Astor Piazzolla, l'opera moderna nelle prestigiose sale da concerto di mezza Europa. Ancora la contaminazione di stili, l'omaggio alla musica napoletana e di nuovo al Piccolo di Milano con Non sempre splende la Luna di Strehler. «I votati al teatro - le scrisse il regista poco prima del debutto - non possono fare a meno del totale dono di sé. Così, questa sera, tu sarai la più sola al mondo, a fare la grande pagliaccia, la grande tragica, la voce dello sdegno e dell'amore con immensa paura e immensa voluttà». Un compendio di sentimenti e di sensazioni che si faranno ancora più intense nel 2004, sul palco con Milva canta Merini, dono dell'incontro con la poetessa milanese che le presterà i suoi testi e le dedicherà anche un componimento, una sorta di specchio della propria anima e dei propri desideri e dell'interminabile percorso umano per raggiungere un qualcosa che sia anche solo lontanamente paragonabile alla felicità. Nel libro Milva, L'Ultima Diva, Martina Corgnati quella ricerca a volte disperata cerca di trasporla attraverso le parole, nel racconto in terza persona della vita di sua madre, nel tempo che si restringe sempre di più. Il 19 luglio del 2012 Milva salirà l'ultima volta su un palcoscenico. Due giorni prima aveva compiuto 73 anni. È un evento speciale, dedicato alla sua terra, al suo cuore forse sempre inconsapevolmente rimasto lì, tra quei campi e quelle paludi di Goro. Un evento dedicato all'Emilia, colpita dal terremoto del 31 maggio. Ma è dentro di lei che il terremoto più devastante si sta scatenando. Una malattia neurodegenerativa la costringe ad abbandonare il suo pubblico e il racconto degli ultimi mesi di vita della madre, Martina lo ricostruisce per immagini, con delicatezza e apparente distacco. «Fuma Milva, da quando non canta più e ha pronunciato ufficialmente l'addio alle scene e la voce si è ancora più abbassata, non rinuncia affatto a quel piacere, che ha sempre avuto e adesso molto di più. Davanti a lei, alla sua destra, un grande schermo televisivo, alla sua sinistra nell'armadio un sofisticato impianto audio, quasi sempre spento, e, alle sue spalle, la biblioteca antica, con le ante chiuse da vetri soffiati a mano. Sono delicate, bisogna aprirle con cautela». «Non è il momento di andare a letto, è mattina, ti sei alzata da poco; allora, dammi una sigaretta. Ma no, Milva, è quasi ora di andare a tavola; sei stata vestita e pettinata, coda di cavallo; Martina ha portato una torta alla panna e anche i fiori, le rose bianche che ti piacciono tanto. Ecco, Martina è arrivata; la domestica dallo sguardo stanco non sorride quando va ad aprirle la porta. È proprio ora di andare».

 

Il servizio è tratto dal "Quindici" n. 9 dell'11 dicembre 2025