Misteri

Le atmosfere e i colori dei portici di Bologna si adattano bene alle trame gialle (foto Ansa)

 

«A Bologna per fare un buon piatto di tortellini ammazzano tre animali diversi: un maiale per il ripieno, una gallina e un manzo per il brodo. Sua maestà il tortellino, come a volte lo chiamano qui, chiede il suo tributo di sangue. Lo chiede e sa ottenerlo», scriveva Luigi Bernardi in “Macchie di rosso: Bologna avanti e oltre il delitto Alinovi”. Fuori dalla cucina, il rosso del sangue ha portato l'inchiostro nero degli scrittori di giallo a fiutare l’anima contraddittoria di questa città. Una città fatta di vicoli e canali, incontri e trame complesse in una cornice di architetture che confondono l'ordinario con l'indicibile in quel susseguirsi infinito di portici. Seicentosessantasei, numero maledetto, sono gli archi per arrivare al Santuario di San Luca, devoto a Maria. E tutta Bologna, comunista e cattolica insieme, è accompagnata nelle strade a volte del malaffare dalla presenza delle immagini di Madonne. Sacro e profano, uno di fronte all’altro.

 

«È una città uterina, che devi attraversare dall'interno. Nel centro non vedi mai il cielo se giri sotto i portici. Sei all'esterno ma sei in qualche modo anche all'interno. È come camminare in un enorme bosco continuo, con tutti i pericoli che ne conseguono, con i tronchi che si susseguono uno dietro l'altro e le ombre sparate nel buio», ci ha detto lo scrittore Marcello Fois. «I portici sono luoghi di protezione e occultamento, dove può succedere qualcosa senza che lo si veda, confusi dal battere di scarpe che li attraversano», commenta il giallista Filippo Venturi. Quanti palazzi, quanti edifici depositari di segreti, quanti luoghi occulti esistono dentro le mura medievali? Loriano Macchiavelli, classe 1934, decano del giallo bolognese, ha una visione precisa: «La città è un giardino, un giardino nascosto di cortili interni; io l’ho vista dall’alto, sembra quasi che si chiuda in se stessa con i portoni e le inferriate. Non sono barriere per evitare i ladri ma per non far uscire i segreti nascosti. Passeggiando in via Castiglione o in via Santo Stefano, ci sono a destra e a sinistra palazzi meravigliosi, chiusi, con le finestre sbarrate. Quando si socchiude un attimo una porta scopri in fondo a un corridoio una fontana, a volte un pozzo. È un'altra città che si cela dietro a queste facciate. La vedi soltanto se sei fortunato, se passi di lì quando qualcuno esce». Ci sono dunque secoli di storia nascosti dietro questi muri e nei sotterranei, nelle gallerie che collegano i palazzi e che bisogna andare a cercare. Perché Bologna è una città che si nasconde.

 

Tutto vero ma le atmosfere cupe e i chiaroscuri non bastano a spiegare il proliferare dei giallisti che hanno deciso di ambientare le loro storie sotto le due Torri. Una cascata di scrittori che ha dato vita alla scuola del giallo bolognese. Certo, qui l’interesse per il noir è stato provocato da eventi tragici di portata nazionale a causa dell'efferatezza della cronaca che irrompe nell’immaginario comune. Giampiero Rigosi elenca solo qualche episodio: «Dobbiamo ricordare la strage alla stazione di Bologna con tutti gli intrecci e i depistaggi che ne sono seguiti, poi le azioni sanguinose della Uno Bianca, che terrorizzavano la città tra la fine degli anni ‘80 e l'inizio dei ‘90. Quelli erano uomini delle istituzioni divenuti rapinatori e assassini». Ma c'è dell'altro. Spiega un'altra fortunata giallista, Grazia Verasani: «Bologna ha una sensibilità molto forte sulle tematiche sociali e l'antifascismo ce l'ha nel Dna da sempre. Da lì è partita una voglia di letteratura sociale, o meglio una letteratura d’inchiesta che è un approfondimento di un certo tipo di giornalismo, associato in seconda battuta all'elaborazione narrativa, con elementi di fiction».

 

Insomma la scuola del giallo nasce qui perché Bologna è un cosmo annodato e oscuro, meno lineare di quanto vogliano mostrare le sue osterie. Giri l’angolo e trovi la contraddizione. Lo hanno sempre saputo i membri dello storico Gruppo 13, il sodalizio nato nel 1990 per volontà di molti scrittori fra cui lo stesso Macchiavelli e Carlo Lucarelli. Spiega Fois: «Si trattava di un gruppo di intellettuali che già aveva un'esperienza editoriale, e che in qualche modo prendeva in custodia giovani esordienti. È nata così la catena di giovani autori di giallo. Nel territorio bolognese si sono concentrati più scrittori di questo tipo perché qui hanno trovato un humus narrativo, un terreno produttivo fertile. Noi nasciamo come comunità di autori, come persone che si sono incoraggiate a vicenda».

 

Due i luoghi della banda: il Caffè la Linea, sotto i voltoni di Palazzo Re Enzo, e la casa di Loriano, a Monteombraro. «Il nostro modo di essere era conviviale in tutto. Ci ripetevamo che gli scrittori di Roma, la città della grande bellezza, si ritrovavano nei salotti letterari e quelli di Milano nei caffè. E noi? Noi in cucina, sempre a mangiare alla tavola di qualcuno. Nascevano così i nostri libri», sorride nostalgico Lucarelli. E allora fra un lambrusco, un piatto di tortellini e qualche crescentina, sono sbocciati personaggi amati dal pubblico dei lettori come il sergente Antonio Sarti, il commissario De Luca, l’investigatrice Giorgia Cantini, l’ispettore Coliandro, l’oste Emilio Zucchini, il commissario Sergio Striggio e tanti altri. C’è chi, come Venturi, dalle cucine non è mai uscito. Giurista e ristoratore, scorge qui, tra la foschia dei vapori di cottura, la sceneggiatura perfetta: «Uno scrittore - afferma - diventa credibile solo quando racconta cose che conosce bene. Si dice tanto che i libri sono come i figli e che uno è uguale all'altro. In realtà i libri sono come le fidanzate, la più recente accoglie le ultime tue cose, le ultime emozioni, le ultime idee».

 

Il gruppo ha vissuto anni spericolati e avventurosi dentro e fuori le librerie. «Eravamo una banda. Quando vennero alcuni giornalisti a intervistarci, andammo nelle carceri dismesse a fianco della chiesa di San Giovanni in Monte. Davanti ai fotografi fingemmo una commedia improvvisata comportandoci come carcerati», racconta Macchiavelli. E aggiunge: «Erano anni formidabili. Io andavo nelle classi del liceo Aldini e facevo un gioco con i ragazzi: leggevo solo una parte del mio romanzo senza svelare il finale. Toccava a loro inventarlo. Erano dei finali straordinari e mi meravigliavo della loro fantasia. Se un giorno avessi occasione di ristampare quei romanzi metterei almeno altri quattro o cinque finali». Nel 1991, arriva la prima antologia, intitolata "I Delitti del Gruppo 13", pubblicata da "Granata Press Metrolibri", con la supervisione editoriale di Luigi Bernardi.

 

Ricorda Lucarelli che «in quel periodo, molte case editrici non scommettevano sui gialli perché esisteva la collana di Mondadori. All'improvviso cominciarono a pubblicare noi perché eravamo autori capaci di vedere la realtà in modo diverso e, comunque, non scrittori di giallo classico. Il nostro punto di forza era avere un’ambientazione estesa». In che senso? «Come diceva Pier Vittorio Tondelli, noi emiliano-romagnoli siamo gente che lavora a Bologna, dorme a Modena e va a ballare a Rimini. La regione è un'unica grande città, con sobborghi che si chiamano Imola e Faenza collegati da una grande strada che è la via Emilia. In un posto così, puoi ambientare tutto quello che vuoi e ogni cosa diventa credibile. La nostra Bologna è Los Angeles». Come è cambiato il genere? «Eravamo creativi e lo siamo ancora. La voglia di sperimentare il noir non ci ha mai abbandonati e continua anche adesso che molti di noi hanno la barba bianca», chiude la chiacchierata Macchiavelli, dall'alto della sua esperienza e dei suoi novantuno anni.

 

Il servizio è tratto dal "Quindici" n.8 del 27 novembre 2025