L'INTERVISTA
L'ex presidente della Ferrari, oggi dirigente McLaren (foto di Sofia Pellicciotti)
L'iconico imprenditore ha vissuto tante vite. La prima, forse la più importante, su quattro ruote. «La Ferrari è ancora un grande amore, anche se mi fa soffrire». Per Montezemolo non ci sono dubbi: al Cavallino Rampante, oggi, mancano «leadership e competenze». L’ex presidente della Rossa si confida, raccontando le notti insonni appena nominato capo a Maranello, del rapporto con Enzo Ferrari, dei ricordi con Lauda e Schumacher. Sul mondo politico attuale non risparmia nessuno: «Sia a destra sia a sinistra vedo poca visione sul futuro. Bisognerebbe tornare a parlare dei temi vicini ai cittadini, come la deindustrializzazione». Italo? «Un bell’esempio di impresa italiana che si è fatta da sola»
Ci può parlare dei suoi collaboratori dell’epoca Ferrari?
«La cosa più bella per un imprenditore è vedere dei giovani, che hanno lavorato con te per tanti anni, crescere e realizzarsi. Vedi il politico Carlo Calenda, che ha cominciato a lavorare nel marketing della Ferrari, l’Ad di Sky, Andrea Zappia, che ha lavorato anche lui con me in Ferrari. Ma anche Stefano Domenicali, al quale ho aperto la strada all’Audi (e adesso è a capo del “Formula One Group”, ndr)».
Come ha gestito negli anni l’equilibrio tra visibilità pubblica e vita personale?
«Ho avuto dei nervi molto saldi, ma sono due le cose che mi hanno aiutato a superare lo stress della costante visibilità: il profondo legame con la mia famiglia e gli amici. Diffido di chi non ha amici, per me quelli veri sono stati fondamentali».
Come ha fatto invece a conciliare la sua ambizione personale con la responsabilità che aveva verso gli altri?
«Il segreto è circondarsi di collaboratori più bravi di te. Per vincere 19 campionati del mondo in Formula 1 devi avere attorno della gente competente, capace di lavorare in team. La cosa più importante per un capo è mettere i propri collaboratori nelle migliori condizioni di lavoro possibili e fornirgli obiettivi molto chiari e precisi».
Le manca la Ferrari? La segue ancora?
«Mi mancano le persone che mi stavano accanto. Mi manca l’ambiente, mi manca l’emilianità, il modo di vivere qui a Bologna. La seguo ancora, anche se mi ha fatto spaccare qualche televisore. La guardo da solo, non voglio che qualcuno mi faccia domande mentre guardo il Gran Premio. Sono triste per la Ferrari, ma ancora innamorato»
Perché oggi la Rossa non vince?
«Non mi piace parlare della situazione attuale della Ferrari. Quando ero presidente non mi piaceva la gente che criticava dalla tribuna. Però posso dire che non ci sono, da anni, una serie di elementi per far sì che una squadra funzioni».
Quali?
«Intanto manca una leadership forte. Mancano competenze, lo dimostra il fatto che non si arriva neanche a lottare per la vittoria. Io ho perso dieci mondiali all’ultima gara. Da troppi anni non succede. E poi manca una vera squadra: io ai tempi avevo, tra gli altri, Jean Todt, Ross Brawn, Rory Byrne, Stefano Domenicali. Il problema non sono i piloti. Anche con il miglior pilota se non hai questi elementi non vinci».
Cosa si provava a essere presidente della Ferrari?
«A volte è stato difficile. Sono arrivato in un’azienda costellata di problemi: macchine invendute, cassa integrazione, in Formula 1 non si vinceva da anni, vetture tecnologicamente superate. Ho passato tante notti insonni. Ma poi mi ha dato tante soddisfazioni».
Cosa significa gestire un marchio come Ferrari?
«Il Cavallino è un marchio che va trattato con enorme attenzione e sensibilità, va tutelato non dimenticandosi mai del passato ma guardando sempre al futuro. La Ferrari è esclusività, la devi desiderare, e su questo ho sempre puntato sin dall’inizio. Produrre meno auto di quante ne potresti vendere, come diceva Ferrari. Devono essere desiderate. Bisogna avere molta cura del lusso, una maniacale attenzione ai dettagli all'innovazione tecnologica».
Un’azienda che ammira nel settore del lusso?
«Hermes, un esempio straordinario di un marchio che continua a essere il numero uno perché gestito con grande attenzione da una famiglia che investe tutto sulla sua esclusività. Non posso non citare anche Patek Philippe e i suoi orologi, altro esempio di lusso nel mondo».
Che effetto le fa oggi ricoprire un ruolo in McLaren?
«È un modo per mettere a disposizione la mia esperienza e la mia passione, un modo per rimanere in un mondo che mi piace e in cui conosco tante persone. Ma sono solo un membro del consiglio di amministrazione della casa automobilistica, non c’entro nulla con il team di F1, e ci riuniamo due o tre volte l’anno».
Qual è il suo rapporto oggi con gli Agnelli, in particolare con gli Elkann?
«Con gli Elkann nessuno. Avevo rapporti con Gianni Agnelli, che per me è stato un misto tra un padre e un fratello maggiore, e anche con Umberto. Oggi sono molto concentrato su quello che faccio. Anche perché, da quando ho lasciato Ferrari, nessuno mi ha mai chiesto consigli o idee per migliorare la situazione».
Qual è invece il suo ricordo di Enzo Ferrari?
«Provo un profondo senso di riconoscenza per lui. Lo devo ringraziare perché in un lontano ‘73 ha saputo puntare su un venticinquenne. Allora era molto diverso da oggi, è stata una scelta coraggiosa. Io lo definisco un agitatore di idee, sapeva tirare fuori il meglio dai propri collaboratori. Non era una persona facile, ma da lui ho imparato molto».
Cosa le ha lasciato?
«L’essere sempre più esigente con te stesso e con chi lavora con te. Quando sei al top pensi di essere arrivato, e invece è proprio quando le cose vanno bene che devi puntare più in alto. Quando abbiamo vinto nel 2000 non ci siamo lasciati andare e abbiamo vinto per altri quattro anni di fila».
Quali piloti le sono rimasti più impressi del suo periodo in Ferrari?
«Ho avuto nella vita rapporti molto profondi in particolare con due piloti. Il primo con Niki Lauda, uno dei migliori amici della mia vita e che come me era giovanissimo quando ha iniziato. Sottolineo che quando io ho lasciato la Ferrari se ne è andato anche lui. E poi Michael Schumacher, un ragazzo fantastico».
Le manca Schumacher?
«Tantissimo. Era un uomo di squadra. Pensare che si è fatto male in un banale incidente sulla neve dopo tanti anni di velocità fa soffrire anche di più. Schumi era come Lauda; quando vinceva era la squadra a farlo. Altri piloti tendono a dire "se vinciamo è grazie a me, se perdiamo è colpa della squadra". Aveva la velocità nel sangue, è terribile ciò che gli è successo».
Cosa ha rappresentato per lei il periodo con Sergio Marchionne?
«Era un uomo molto intelligente ma difficile, un one man show. Uno di quelli che voleva prendere le decisioni, attirare l’attenzione su di sé. Molto capace, gran lavoratore. Un uomo che, sono sicuro, non avrebbe mai venduto la Fiat».
E con la Ferrari?
«Il suo sogno è sempre stato quello di diventare un numero uno anche a Maranello, ma forse ha sottovalutato l’anomalia di quell’azienda. Non tutti i manager di successo in altri settori possono vincere in Formula 1».
Quali sono le sue più grandi soddisfazioni?
«Una è stata quando il “Financial Times”, dopo una ricerca di mercato, ha nominato la Ferrari il miglior posto di lavoro in Europa. Anche Jeff Bezos, quando venne in visita, rimase impressionato dal vedere degli alberi veri dentro i nostri stabilimenti. Speravo comprasse decine di Ferrari – non ne comprò nessuna – ma restò ammirato dalla Formula Uomo, che trasformò delle officine in ambienti accoglienti, piacevoli ed ecologici. Poi c’è Italo, la dimostrazione che in Italia, nonostante le difficoltà, si può creare un’azienda da zero».
Può raccontarci delle difficoltà che hanno caratterizzato i primi anni di vita di Italo?
«Siamo partiti da un foglio bianco. Ho sempre avuto una passione per i treni e volevo offrire un’alternativa rompendo il monopolio dello Stato sulle ferrovie. All’inizio avevamo tutti contro, dall’estrema destra alla sinistra più radicale».
Come ha fatto a sostenere dal lato economico un’azienda appena nata?
«Non c’era un euro di denaro pubblico. I soldi erano tutti di imprenditori privati selezionati e che non dipendessero dal mondo politico, come Diego Della Valle, Isabella Seragnoli, Alberto Bombasei e Gianni Punzo, recentemente scomparso. Un ruolo fondamentale l'ha avuto Banca Intesa. È una bella storia imprenditoriale, orgogliosamente giovane: più di 1.500 dipendenti con un’età media di 33 anni e ora è considerata la migliore d’Europa».
Cosa ci può dire invece di Itabus?
«Lì è più difficile. In Italia non c’è ancora la cultura dell’autobus come ce l’hanno, per esempio, negli Stati Uniti. C’è tanto bisogno degli autobus, anche perché i treni regionali sono ancora esclusiva delle Ferrovie dello Stato e non arrivano dappertutto. È un’alternativa molto valida per i giovani, perché puoi andare da Reggio Calabria a Torino con meno della metà del prezzo di un treno o di un aereo».
Qual è il suo giudizio sull'ultima manovra finanziaria del Governo Meloni?
«Non ho mai visto nella storia di questo paese una manovra che sia stata considerata sufficiente, sono state tutte criticate. Vedo in atto un’opera di “distrazione di massa”, dove i temi che vengono affrontati sono lontani dalle esigenze delle persone. Bisogna tornare a parlare dei veri problemi dell’Italia, non pensare solo al contingente, ma puntare al futuro e soprattutto pensare alla crescita del paese».
Quali sono i veri problemi della società nel suo complesso?
«Prima di tutto il tema delle disuguaglianze, come il sempre più ampio divario fra ricchi e poveri. Vedo una classe media in grande difficoltà, quando è sempre stata la forza di questo Paese. Poi vedo una lenta e inesorabile deindustrializzazione del Paese, non solo del settore automotive, di cui la politica non si occupa».
Cosa ne pensa dello stipendio da mille miliardi di Elon Musk?
«Terribile».
Cosa sta succedendo all’industria delle auto in Italia?
«C’è in atto una crisi in tutta Europa che in Italia è ancora più grave e l'industria rischia di scomparire. Le criticità hanno intaccato l’intera filiera a partire dai fornitori fino ai concessionari. L’Italia non ha più un’azienda elettronica, che era la Magneti Marelli; ha venduto gli autobus e i camion della Iveco, ora in mano agli indiani. Ha grandi marchi come Lancia, Alfa Romeo, Maserati, che ora sono ridotti al lumicino e abbiamo anche svenduto le macchine agricole. Produciamo meno di 500.000 auto all'anno e ci fermiamo lì».
Quali sono le soluzioni?
«Il problema è che non abbiamo attrattiva nei confronti di aziende estere. Se guardiamo alla Spagna, che produce più auto dell'Italia, c'è la Seat, che è l'industria nazionale, ma ci sono sia Audi che Renault che producono».
potrebbe tornare a competere nel settore automotive?
«Noi abbiamo una filiera di fornitori straordinari in Italia che potrebbero produrre, ma abbiamo tutti gli stabilimenti in cassa integrazione. Eravamo secondi solo alla Germania nel settore delle auto, ora fatichiamo a essere fra i primi sette paesi in Europa».
Cosa dovrebbe fare la politica?
«Vedo oggi una politica molto concentrata sul giorno per giorno, manca la visione sul futuro e c’è troppa litigiosità. I sindacati dovrebbero parlare con la politica di questa grave deindustrializzazione. Quando ero presidente della Fiat, Maurizio Landini con la Fiom-Cgil era sempre davanti ai cancelli degli stabilimenti. Oggi vanno in piazza per Gaza, e fanno bene (magari lo facessero anche per l’Ucraina), ma vorrei vedere anche qualche manifestazione e molto impegno contro la deindustrializzazione».
Quali sono i problemi che affrontano gli imprenditori?
«Oggi il tema non sono più solo la burocrazia e il fisco, ma la mancanza di personale. Un tempo era un problema dell’agricoltura, ora c’è in tutti i settori, anche nel turismo. Pensate all’artigianato: quando l’artigiano smette di lavorare, il figlio non vuole prendersi l’azienda, e così si chiude bottega. Noi abbiamo un grande potenziale rappresentato dagli immigrati, bisogna puntare sulla loro formazione».
Come trova Bologna oggi?
«Bologna mi fa sempre stare bene. Tornare mi mette di buon umore. Quando si vive qui non ci si rende conto di quanto sia accogliente, della fortuna che si ha a starci. Anche se ci sono tante cose che si possono migliorare. Si dovrebbe puntare di più sull’innovazione progettando la Bologna del futuro, come si sta facendo bene col tecnopolo e con tante aziende d'eccellenza tecnologiche del territorio».
Com’è stata la sua infanzia in questa città?
«Ho dei ricordi meravigliosi. Sono nato nel 1947, subito dopo la guerra, in una città distrutta. Vivevo in via Saragozza, e mi ricordo delle tante gite fuori porta in Vespa con mio padre, dei vestiti buoni della domenica».
Peraltro, di queste storie se ne parla nel film Luca: Seeing Red.
«Sì, sarà nelle sale anche a Bologna i primi di dicembre ed è un grande onore: non si parla solo della mia vita, ma di tanti aspetti belli del nostro Paese».