L'indagine

Palazzo del Governo, Comune di Bologna (foto di Federico Mosca) 

 

Operavano formalmente come centro di assistenza fiscale per adescare immigrati provenienti dal Nord Africa, Pakistan, Bangladesh e Sri Lanka da truffare. Venticinque i soggetti indagati, di cui otto sottoposti a misura cautelare, per i reati di associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, truffa aggravata ai danni dello stato e falso ideologico. Tra loro anche una bolognese, classe 1963, finita questa mattina agli arresti domiciliari, che fungeva da presunta datrice di lavoro e figura esperta nel raccogliere quante più persone possibili. L’indagine ha raccolto oltre cinquecento domande per l’ingresso illecito da parte delle vittime in Italia, nella maggior parte dei casi completamente ignare, che costavano dai tremila ai diecimila euro per singola persona o nucleo familiare. Gli stranieri venivano convinti con la promessa di ottenere un contratto di lavoro.

L’inchiesta, avviata nel dicembre 2022, è durata circa sei mesi ed è stata condotta dalla Polizia di Bologna, con l’ausilio del Commissariato di Imola e il Reparto Prevenzione Crimine Emilia-Romagna Orientale. A capo della rete criminale un pluripregiudicato abruzzese del 1974, affiancato da figli e collaboratori. Coinvolti tra gli altri anche procacciatori di clienti stranieri, falsi datori di lavoro e collaboratori delle società utilizzate come copertura. Le pratiche - spesso corredate da documenti falsi, passaporti scaduti o nullaosta contraffatti - venivano fatte passare come regolari, sfruttando buchi del sistema del Decreto Flussi. Questo, infatti, stabilisce ogni anno il numero massimo di cittadini stranieri non comunitari che possono entrare in Italia per motivi di lavoro.

I truffatori inviavano centinaia di domande nelle Prefetture di Bologna, Ferrara, Milano, Mantova, Napoli, Salerno e Foggia, per oltrepassare il sistema di controlli. Trascorso il termine previsto dalla legge in trenta giorni, permetteva alla pratica di essere validata senza uno specifico controllo. La rete sfruttava l’alta mole di pratiche che arrivavano sistematicamente nelle rispettive prefetture. Il finto Caf operava con due sedi nel Comune di Imola e un business in sviluppo in Romagna e nelle Marche.