Dossier
Il Memoriale dell'Olocausto a Bologna (foto di Edoardo Cassanelli)
La questione israelo-palestinese non ha mai smosso gli animi al di fuori dei suoi labili confini come oggigiorno, nonostante si parli di una storia che versa sangue sin dal lontano 1948. La fatidica data del 7 ottobre 2023, con gli attacchi terroristici di Hamas prima e i massacri del governo di Israele sui civili di Gaza dopo, ha scatenato una vasta sollevazione civile. Boicottaggi, scioperi e manifestazioni, voci del mondo riunite nelle piazze per denunciare i crimini contro l’umanità perpetrati nella Striscia, spesso facendo uso delle giuste azioni di pace, spesso trascinando i messaggi delle ragionevoli proteste nella sciatteria della violenza e dell’ignoranza, favorendo il dilagare dell’antisemitismo. Così facendo, le ondate di odio contro Israele e, di riflesso, contro il popolo ebraico in generale saranno difficili da estinguere nell’immediato futuro. La cosa risulta più ardua per il fatto che, secondo l’opinione pubblica, le comunità ebraiche del mondo – e quindi, tra le tante, anche quella di Bologna, attiva negli ambiti politico-culturali della città e attenta all’attualità nazionale e internazionale – non abbiano fatto abbastanza a proposito del denunciare le azioni di Netanyahu e del suo governo. E che non facciano abbastanza, adesso, per screditare la figura del primo ministro israeliano. Guardando al solo panorama italiano, per la storica Anna Foa – figlia del politico, storico e giornalista Vittorio, e essa stessa ebrea – la risposta è semplice, ma non meno amara: «Non è che le comunità della Diaspora non fanno abbastanza, non fanno niente. Persiste un forte sostegno a Netanyahu con l’idea, in questo modo, di difendere l’esistenza dello Stato di Israele. Io mi sento dare della traditrice dalle stesse comunità solo per aver scritto il saggio "Il suicidio di Israele"». Parole dure, di una donna che continua a essere attaccata per le sue opinioni, sostenute dai fatti storici, per ciò che ha scritto appunto nel suo ultimo libro sulla storia di Israele, sull’identità ebraica e sull’attualità. Una breve opera rivelatrice che quest’anno ha vinto la prima edizione del Premio Strega per la saggistica. È la dimostrazione di come si sia preda del giogo di certi pensieri unici; se critichi Israele allora sei antisemita, se critichi i sostenitori pro Pal per come alcuni di loro manifestano allora sei favorevole alla sofferenza del popolo di Gaza. E di fronte al silenzio, alle denunce in sordina, non abbastanza potenti, non può che scattare la rabbia, come si è visto nelle scorse settimane nelle piazze d’Italia e del mondo. Un ampio malcontento che non finirà certo domani di esternare la sua voce, almeno finché non ci sarà una vera ricostruzione e una vera speranza di indipendenza governativa per i palestinesi. «Sono favorevole alle manifestazioni non antisemite, che non negano l’esistenza di Israele, il suo diritto a esistere. Negarne l’esistenza è antisemitismo. Per il resto, manifestare contro il governo di Netanyahu e contro l’esercito israeliano lo ritengo più che condivisibile», ha ripetuto più volte Foa in questo periodo tumultuoso. Il problema, sottolinea la storica, è culturale, riguarda l’istruzione e i giovani. «La maggior parte degli studenti non sa nulla o quasi di quello che è stato detto e si dice nelle manifestazioni. È per questo che vado nelle scuole e nelle università, cerco di spiegare le cose, come i vari sionismi, le varie realtà che vengono ignorate. Ma in fondo non faccio troppo caso a tutto ciò, perché smontare le idee degli antisemiti inconsapevoli è ancora possibile. Quelle dei veri antisemiti, consapevoli, invece no». Altro strumento per smuovere le acque è stato il boicottaggio di enti e altre realtà israeliane legati alla sfera della cultura, della ricerca, dell’università, ma anche del commercio, e non importa che condividessero oppure no i crimini del governo di Netanyahu e delle forze militari. Sul tema, tutt’oggi scottante, il pensiero di Foa è cambiato nel tempo. «Prima ero contraria al boicottaggio nelle università, adesso non lo sono più. In fondo non è uno strumento militare, è qualcosa di utile, soprattutto quando si va oltre ogni limite. Ora come ora, la soluzione dei due Stati rimane l’unica possibilità per l’autonomia politica palestinese, seppur non sia contemplata nel piano di Donald Trump, così come non si parla nemmeno della Cisgiordania». Quindi, alla fine dei conti, cosa possono fare per davvero e concretamente le comunità, gli enti culturali, dato che ancora si può denunciare affinché le cose vadano per il verso giusto, nonostante la tregua, agognata ma forzata e piena di contraddizioni? «Il museo in questo frangente storico delicato continua a fare quello che ha sempre fatto, e cioè far conoscere e proporre letture del passato e riflessioni pacate sul presente, cercando di capire cosa sta avvenendo», dice Ivan Orsini, direttore del Museo Ebraico di Bologna, a differenza dell’opinione di Foa sul silenzio delle comunità. Il direttore si definisce infatti, dato il suo ruolo, «un mediatore tra sensibilità e approcci diversi che talora necessitano di una armonizzazione». «Compiere atti di ostracismo verso la cultura non è mai una cosa buona, perché non è la cultura la responsabile di scelte politico-militari. Semmai, la cultura aiuta o, almeno, dovrebbe aiutare a ragionare ponderatamente prima di compiere passi spesso importanti», conclude il direttore, riportando il discorso sui boicottaggi come mezzo pericoloso per la vulnerabilità del gioco delle mediazioni. Le comunità ebraiche sono conosciute per la forza con cui mantengono salda la loro identità nel segno della tradizione religiosa, senza mai proporre una visione evangelizzatrice, al contrario di cristianesimo e islam. Un’identità che però, col tempo, ha imparato a confrontarsi con il resto del mondo. È un esempio di ciò proprio la comunità ebraica di Bologna. Una comunità con una storia lunga e intensa, che può essere interessante conoscere per avere un quadro più ampio dell’attualità. La sua storia, come del resto quella di altre comunità figlie della Diaspora, non è priva di tribolamenti. I primi insediamenti ebraici a Bologna si possono datare tra il III e il IV secolo d. C., e nella corsa dei secoli gli ebrei vennero cacciati a più riprese, per poi ritornare sempre in città. In questo vasto periodo storico si inseriscono, tra gli altri eventi, gli scontri con lo Stato Pontificio e il breve momento di libertà ottenuto grazie a Napoleone durante le sue imprese nella Penisola. Poi, ecco due svolte, e cioè l’uguaglianza religiosa nel 1859 e il riconoscimento ufficiale della comunità nel 1911. Ma venne la Seconda guerra mondiale e non fece sconti nemmeno alla Turrita. Furono 85 i deportati nei campi di concentramento, nel 1943. Finito il conflitto, molti tornarono alle loro vecchie strade, in qualche modo la comunità si riorganizzò e il Tempio, distrutto nel 1943, venne fatto risorgere nel 1954. Una città parla, rende viva la sua anima attraverso i suoi luoghi, i suoi monumenti, e sono diverse le attrazioni, i “segni” che raccontano l’ebraicità del capoluogo emiliano-romagnolo. Un viaggio che non può che partire dal ghetto, nel cuore del centro storico, sotto le due Torri. Un quartiere che conserva la sua aura misterica, con viette strette, cortili e strade di acciottolato. Un paesaggio urbano pittoresco, dalle vie dai nomi pittoreschi: via dell’Inferno (dove si trovava l’antica sinagoga, ora ricordata da una lapide), via de' Giudei, via Canonica. Poi c’è la “porta” che invita a entrare nel ghetto, ovvero il voltone che collega la chiesa di San Donato a Palazzo Malvasia, a due passi da via Zamboni, l’arteria universitaria. In via Valdonica si cela invece il Museo Ebraico, bandiera del patrimonio storico e culturale della sua gente, appartenente non solo alla realtà di Bologna ma anche al resto dell’Emilia-Romagna. «Il museo rappresenta un punto di riferimento per la comunità, ha con esso un rapporto profondo, consolidatosi nel corso degli anni, dalla partecipazione a iniziative a varie forme di collaborazione. Il museo offre alla collettività un’immagine molto articolata e complessa della storia del popolo e della cultura ebraica», dichiara sempre Orsini. In via de’ Gombruti, non molto lontano da Piazza Maggiore, c’è la sede della comunità, mentre in via Mario Finzi si può intravedere l’entrata della sinagoga attuale, con dentro il piccolo tempio Beth Yedidiah, inaugurato nel 2017. Nel suo complesso, si tratta di un luogo di culto dagli interni semplici e i muri esterni color sabbia, caratterizzato da un’ampia vetrata a forma di Stella di Davide, simbolo della civiltà ebraica. Poco più sotto di essa, si può notare una grande lapide bianca con su incisi i nomi degli 85 ebrei bolognesi deportati senza ritorno. Un edificio silenzioso stretto in una viuzza altrettanto silenziosa, che salta all’occhio più per i militari appostati fuori dall’entrata che per la sua architettura. Spostandoci più lontano dal centro, si giunge al Cimitero Monumentale della Certosa. Questo illustre cimitero ha la sua sezione ebraica, divisa da delle mura dal resto del campo santo, con il suo personale terreno sacro e le sue tipiche lapidi in pietra, sobrie, sfoggianti emblemi come la Menorah, la lampada a sette braccia che rappresenta i sette giorni della creazione di Dio, e di nuovo la Stella di Davide. Andando verso il ponte di via Matteotti, che passa sopra la rete ferroviaria, si può intravedere, all’incrocio con via de’ Carracci, il monumento che Bologna ha voluto offrire ai morti dell’Olocausto. L’enorme memoriale è stato inaugurato nel 2016, nella data simbolo del ricordo, il 27 gennaio. L’immagine dell’opera, in cima a una scalinata bianca dall’aria regale, è angosciante e riflessiva allo stesso tempo: due blocchi d’acciaio Corten d’un rosso rugginoso (ma da lontano, a seconda della luce, sembrano quasi neri), distanti l’uno dall’altro pochi centimetri. Pochi centimetri che lasciano passare l’aria in una strettoia soffocante. I due blocchi sono fatti di diverse “celle” vuote, riquadri freddi che simboleggiano la prigionia nei campi di concentramento. Il vuoto e il silenzio che aleggiano in essi sono un vero e proprio pugno nello stomaco. La cultura ebraica lascia altre sue impronte in giro per la città, come delle “briciole” da seguire. Di tali briciole, sono le pietre d’inciampo a reggere il peso più tosto della memoria, del tempo che si ferma per essere preso dentro coi piedi, in modo da far abbassare lo sguardo e dare spazio a un pensiero. Nate dalla mente dell’artista tedesco Gunter Demnig, le pietre d’inciampo sono delle mattonelle, a volte quadrate a volte tonde, recanti i nomi e le date di coloro che sono morti per mano delle persecuzioni naziste. Bologna ne ha posate diciannove. Due sono in via de’ Gombruti, appartenenti al rabbino Orvieto e a sua moglie, di fianco alla porta della sede della comunità; una è in via del Cestello ed è dedicata al giovane magistrato e pianista Mario Finzi; sette per la famiglia Calò in Strada Maggiore; cinque in via Rimesse per la famiglia Baroncini e infine quattro in via Valeriani, dedicate alla famiglia di Arpad Weisz, il celebre allenatore del Bologna FC, morto ad Auschwitz assieme ai suoi cari. Se la cultura può essere dunque una risposta alle incomprensioni e alle contraffazioni di comodo, conoscere la storia delle comunità può allora rivelarsi la giusta strada da percorrere, in modo da aprire meglio gli occhi sulla storia di un popolo e di un conflitto che va di pari passo con esso. Bologna, con le sue sfaccettate identità, è certamente un esempio da scoprire per raggiungere questo scopo, nel segno del dialogo e della tolleranza.