Concerti
Gio Evan sul palco del Teatro Duse (foto di Paolopontivi)
Tante, tantissime parole quelle di Gio Evan, poeta, scrittore e cantautore che ieri sera al Teatro Duse ha messo in scena “L’Affine del mondo”, uno spettacolo in tre atti che è un viaggio introspettivo dentro i frammenti più riposti dell’essere umano, dentro quelle «incertezze che oggi sono niente più e niente meno che un trionfo». Una fotografia nitida e ben illuminata del pressappochismo che la società offre scintillante come su un piatto d’argento.
«Una società che non sa più provare tenerezza verso se stessa. Abbiate il coraggio di farvi tenerezza. Stasera ho da fare. Esco con me. E se tutto va bene mi porto anche a letto». Riflessioni che si uniscono alla musica e ai ritmi leggeri, questioni esistenziali che si nascondono tra le risate del pubblico e tra gli schermi degli smartphone irrimediabilmente accessi. Eppure, celate dietro l’apparente ironia ci sono questioni che coinvolgono direttamente il percorso vitale di un essere umano, il percorso di crescita di un particolare e unico animale che «nasce e si caga addosso. Noi nasciamo e ci caghiamo addosso. E lo facciamo solo noi. Solo noi abbiamo bisogno di tutta questa cura e di tante, tante coccole. Il ruttino lo facciamo solo con la giusta passeggiata. Non siamo come lo gnu, che nasce, si guarda le zampe e dopo due minuti manda affanculo tutti e se ne va correndo. No e no. Noi siamo disposti a tutto per amore». E allora ci si chiede davvero di quanta tenerezza noi saremmo potenzialmente capaci, di quanta vita noi sprechiamo senza riceverla e senza darla. Così tra un successo indie e l’altro, tra “Arnica” (presentata al Festival di Sanremo del 2021) e “L’eleganza del mango”, “Turno di notte” e “Raccogliere i fiori”, Evan si libera dei suoi scheletri dell’armadio, inventando parole, espressioni, unendone alcune con altre, ricreando una nuova grammatica, anche a costo di sfiorare i luoghi comuni, il già detto e il già sentito. Ma poco importa se l’immagine che ne viene fuori è quella tragicamente reale «degli uomini che si passeggiano puntualmente tutti i giorni, ma che sono anni luce lontani da loro stessi. Che confondono l’essere con il trascinarsi, non accorgendosi che ciò di cui non ci si prende cura, inesorabilmente se ne va».
Perché la vita, è vero, non fa eccezioni, «non ci deve niente, lei sta a posto così e noi non ce ne accorgiamo neanche». Così, in un ultimo disperato tentativo di assecondare «l’emergenza di noi stessi», Evan inaugura e festeggia la “scuola di accanto” e esce, respira, si mette ad «accantare, trovo un passante di fiducia e gli chiedo di avvicinarmi. Tienimi a me che sta settimana sbarello. Smettila di sfumare, restati, statti. Sono sicuro che sarà questa l’affine del mondo. E se accantare non esiste, inventalo».