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«Hanno ucciso un poeta», è il grido di Alberto Moravia durante l’orazione funebre di Pier Paolo Pasolini, oggi ripetuto in video al Modernissimo dove è allestita fino all'8 febbraio una mostra dedicata al poeta di Casarsa. I mesi che conducono l’intellettuale alla morte si susseguono nel rosso profondo della galleria del cinema, condensati in articoli, reperti giudiziari e scatti. È un incedere lento quello richiesto dalla visita, interrotto solo dall'incrocio di sguardi fra Pasolini e chi gli fu vicino, prima e dopo il 2 novembre 1975. Trovato senza vita sul litorale di Ostia, a cinquant’anni dalla scomparsa, la verità giudiziaria sembra ancora: «Una storia sbagliata», come scriveva Fabrizio De André nella canzone dedicata al caso. Quella ufficiale, considerata dagli amici un telo che insabbia la verità. Oggi come allora, rimane un punto fermo: «Abbiamo perso un dissimile e, allo stesso modo, un simile», ha detto Moravia. Un artista diverso, disinteressato alle logiche del calcolo, estraneo ai tornaconti. Poeta sacro e dissacrante, eternamente contrario. Un’indole cara, di cui paga il prezzo con trentatré processi, tanti dei quali risolti in assoluzioni e amnistie. Inventore della poesia civile di Sinistra, combina versi e denuncia sociale. Sarà fautore di un cinema sperimentale, da “Accattone” all’ultimo progetto in - compiuto “Porno Teo Kolossal”. In tutto, testimone del mutamento della classe proletaria in borghese, sedotta dal piacere corruttivo del consumismo omologante. Alla perdita dei valori tradizionali oppone fino all’ultimo l’autenticità dei rapporti personali. Essere sé stessi, ossia «continuamente irriconoscibili», diceva Pasolini.
L'articolo è stato pubblicato nel n. 7 del "Quindici"