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Un deposito di auto di un'industria (foto Ansa)
«Il settore più colpito è senza dubbio quello dell’automotive. La crisi dell’industria automobilistica tedesca ha avuto ripercussioni anche sulla filiera nel nostro Paese, come nel caso di Stellantis. L’impatto qui si sente in particolarmente, dove la componentistica per l’industria automobilistica rappresenta una parte importante della produzione regionale». Questa, secondo Primo Sacchetti, segretario organizzativo della Fiom Bologna, è la ragione della crisi che colpisce la motorvalley.
Il dirigente dei metalmeccanici della Cgil commenta così il rapporto di Bankitalia che fotografa un'Emilia-Romagna con un'economia in crescita, ma un'industria che arranca. Nei primi nove mesi del 2025 la cassa integrazione in regione ha raggiunto 46,1 milioni di ore, con un aumento dell’11,9% rispetto allo stesso periodo del 2024. A Bologna la situazione è ancora più critica: oltre 10 milioni di ore, pari a un incremento del 20,1%.
Dati preoccupanti, secondo Sacchetti: «Se da una parte c'è l'automotive di lusso, un settore in forte espansione con aziende come la Ferrari, la Lamborghini, o la Ducati che chiudono anche con utili importantissimi, dall’altra c’è la produzione della vera e propria componentistica dell’automobile, in forte crisi. Un’immagine che rispecchia l’andamento di una società dove i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri». Accanto all’industria automobilistica, anche il settore degli ingranaggi per il movimento della terra mostra segnali di rallentamento. «Ci sono aziende, a partire dalla Cnh (Multinazionale operante nel settore delle macchine agricole e industriali) che hanno delocalizzato parte della produzione in Paesi come l’India, dove il costo del lavoro è molto più basso. È una strategia che impoverisce il nostro territorio, perché riduce il valore aggiunto e ridimensiona l’occupazione», continua Sacchetti.
Secondo i dati della Banca d’Italia, l’economia emiliano-romagnola registra comunque un +0,5% del PIL, ma il tasso di disoccupazione industriale sale al 4,4%. Un paradosso che per la Fiom è spiegabile con i processi di riorganizzazione interna che diverse imprese stanno mettendo in atto: «Siamo quasi a livello della crisi del 2008-2009, una situazione davvero preoccupante. Molte aziende non licenziano direttamente, ma non sostituiscono chi esce, né creano nuovi posti. Questo genera disoccupazione strutturale, anche senza crisi conclamate. Oggi regna l’incertezza: i mercati rallentano, la situazione geopolitica pesa, e quando c’è incertezza le aziende si chiudono, tagliano i costi e bloccano le assunzioni. I dazi e le politiche commerciali europee hanno un ruolo, ma la vera causa è la mancanza di una politica industriale nazionale».
Dai dazi alle politiche che si stanno ormai determinando in Europa, la situazione è decisamente critica secondo il rappresentante Fiom: «È evidente che quello che sta accadendo a livello geopolitico non aiuta, non c'è un investimento sulle politiche industriali in questo Paese, manca proprio tutto, è un settore completamente rasato. Questo governo pensa solo all'industria delle armi, altro non esiste, la politica non spende un euro in politiche industriali, ma addirittura miliardi di euro in riarmo. Questo spiega quanto le politiche di destra che stanno avanzando in tutta Europa sono tutte piegate alle logiche di Trump, che insegna al mondo quello che sta facendo».