Mostre

Alcune delle fotografie esposte alla mostra (foto di Michelangelo Ballardini)

 

 

Sono 144 finestre aperte sugli angoli più remoti o più noti del pianeta, attraverso le quali guardare e contemporaneamente essere guardati da una realtà che spesso lascia disarmati. Alla galleria del Modernissimo, in Piazza Re Enzo, fino al 30 novembre sarà visitabile la mostra "World press photo 2025", una selezione delle quasi 60.000 fotografie che quest’anno hanno partecipato al più importante concorso di fotogiornalismo al mondo, realizzate da 3.778 fotografi provenienti da 141 paesi. Camminando nel silenzio delle stanze bianche dell’esposizione si avverte tutta la solennità e la potenza di queste immagini, specchio del mondo contemporaneo. Mute per loro stessa natura, svincolate da limiti di lingua o comprensione, ogni fotografia in mostra colpisce per motivi differenti.

Alcuni reportage per le storie che raccontano. Quella di una città in Ohio dove un treno ha deragliato spargendo sostanze tossiche nell’aria, con cittadini per strada nascosti da maschere antigas, le usanze degli indigeni neozelandesi Ngāi Tūhoe, dagli occhi fieri e diffidenti, l’isolamento delle donne afgane strappate da scuole e luoghi pubblici, lo sguardo perso nel vuoto dei detenuti torturati liberati dalla prigione siriana di Sednaya al crollo del regime di Assad, gli scatti dell’italiana Cinzia Canneri che ritraggono le donne della regione del Tigrè in fuga dall’Etiopia in guerra. È proprio la violenza a essere protagonista di molte immagini; dai bambini palestinesi mutilati alle strade sprofondate nel caos di Haiti, dal fallito attentato a Donald Trump alla popolazione libanese che guarda terrorizzata il cielo al suono dei droni israeliani in arrivo. Non è mai però violenza fine a sé stessa, immortalata per scioccare lo spettatore, ma sempre un mezzo per raccontare sentimenti estremamente istintivi, animaleschi ma umani, reali, mai posati. C’è spazio anche per molto altro nel mosaico di umanità che è la mostra: la gioia di tifosi sudamericani che si abbracciano per la vittoria della propria squadra, la solitudine di uno sposo sudanese che si appresta a sparare in aria per festeggiare come da tradizione della sua gente, la forza di un bodybuilder ugandese che ha perso una gamba in un incidente ma non la sua determinazione, la dedizione di un gruppo di volontari in Zambia che protegge elefanti e umani dai pericoli della siccità. Alcune particolarmente evocative, come un aereo che sembra galleggiare nel mare, ma è solo fermo su una pista allagata dalle alluvioni brasiliane, o una casa nello stato americano di Washington, dove i malati terminali possono passare l’ultimo giorno di vita in serenità fuori da cliniche e ospedali prima di prendere un farmaco che li faccia addormentare un’ultima volta. Tutto in poche decine di metri. Ci si perde, si tace, si osserva. Mondi che sono il nostro, ma che sembrano così lontani da essere fantasia, eppure così vicini. Perché guardando attraverso l’obiettivo dei fotoreporter che fissa un momento umano nel tempo, alla fine vediamo riflessi anche noi stessi.