Carcere

L'interno di una cella in un carcere (foto Ansa)
Fare teatro dietro le sbarre non è un’esperienza marginale, è un gesto di riappropriazione personale e collettiva. "House We Left", (“La casa che abbiamo lasciato”), è lo spettacolo nato dal laboratorio teatrale condotto da Cecilia Di Donato nella Casa circondariale di Reggio Emilia. Vi hanno partecipato le donne della sezione Z (sotto protezione) e le detenute transgender del reparto Orione, l’unico di questo tipo in Emilia- Romagna dove, fino a maggio, erano presenti 11 persone. Gruppi spesso privati di voce, residenza sociale e diritti, all’interno del sistema carcerario. Il laboratorio è nato nel 2017, con la proposta di Di Donato invitata dal carcere di Reggio Emilia e portata avanti fino a oggi. «Sono entrata nelle carceri con la consapevolezza di non sapere nulla, ma con il desiderio di incontrare i detenuti e conoscere le loro storie come persone», racconta. «Qualsiasi esercizio proponessi loro, anche il più neutro, diventava personale. Le loro storie uscivano con forza attraverso il corpo, la voce, la fatica». Cecilia ha iniziato questo percorso con i detenuti uomini, per poi portare il laboratorio anche all'interno dei reparti femminili, dove l'esperienza si è rivelata ancora più intensa e trasformativa. Il progetto è parte integrante del programma Teatro-Carcere, avviato dalla Regione Emilia-Romagna nel 2011 e sostenuto in modo stabile – con contributi annuali oggi intorno ai 60.000 euro – attraverso il Coordinamento Teatro-Carcere, che unisce sette compagnie e offre laboratori e percorsi teatrali rieducativi. Per l’insegnante di teatro, uno dei momenti più toccanti è stato quello in cui Nicole, detenuta transgender, ha letto una sua poesia sulla maternità, che non aveva potuto sperimentare, davanti alle donne della sezione Z. Spesso sono provenienti dal Sud Italia e hanno un retaggio culturale, racconta chi le conosce, con pregiudizi sulla comunità Lgbtqia+. «Ricordo benissimo che dopo la lettura, una delle donne della Z, una napoletana, con un carattere deciso, abbastanza rissosa, che inizialmente non era riuscita a integrarsi e ad accettare la femminilità delle detenute transgender per i soliti pregiudizi su di loro, dopo averla ascoltata rispose con un forte accento napoletano: “Sai che alla fine a me andrebbe bene se mio figlio sposasse una come te”. È stato un momento toccante, ancora oggi mi vengono i brividi», ha ricordato Cecilia. La semplicità e allo stesso tempo la forza di quella risposta ha segnato il laboratorio stesso, incarnando l’importanza della condivisione lavorativa. Il palco ha costruito un ponte tra le due categorie dove prima c’era una netta diffidenza. "House We Left", scritto e diretto da Alessandro Sesti, è andato in scena per la prima volta nel 2020 con Cecilia al centro del palcoscenico accompagnata da tre musicisti. Il titolo è una potente metafora: la casa perduta, quella interiore e affettiva, diventa un’idea da ricostruire collettivamente, in un carcere che nega ogni scelta e relazione. «In carcere le detenute non possono scegliere in che cella dormire, ma soprattutto con chi condividerla. Tutto ciò che per il senso comune viene definito “casa” non lo è più. Non esistono spazi privati dove poter essere libera di fare, dire, essere ciò che si vuole. Il carcere diventa per le detenute la loro “casa” per forza di cose e accettarlo non è sempre facile», ha spiegato Di Donato. Le protagoniste hanno il compito di portare in scena storie crude e intime: transizione in carcere, rapporti con i figli, emozioni represse, rabbia. Lavorano insieme, si siedono in cerchio, si confrontano e costruiscono ascolto e solidarietà. Il laboratorio teatrale non si è però di certo fermato a "House We Left", anzi quello è stato solo l’inizio di un lungo percorso ancora in atto. È stato più recentemente prodotto anche lo spettacolo “Cuciture – I sogni non hanno pareti”, ispirato dal racconto “Casa di bambola” di Henrik Ibsen. Le detenute si sono trasformate in vere e proprie bambole dentro scatole di cartone a grandezza naturale, una metafora visiva di celle e stereotipi imposti. Guidate da una forte voce maschile, che rappresenta società e pregiudizio. «Non è solo una denuncia: è un messaggio per tutte le donne intrappolate, dentro o fuori», ha continuato Cecilia. Se per le detenute transgender la voce maschile ha simboleggiato quella della società, evidenziando pregiudizi e stereotipi su di loro, per tutte le altre donne quella stessa voce ha avuto un significato diverso, ma non meno evidente, legato a ogni violenza domestica (l’uomo che ti dice cosa fare, come e chi essere costantemente). Il teatro in carcere non si ferma solo al puro progetto di inclusività, connessione culturale ed esplorazione delle proprie emotività. È un progetto legalmente riconosciuto. Le partecipanti, che scelgono di aderire al progetto in libera autonomia, firmano veri e propri contratti da attrici e sono quindi assunte regolarmente durante i giorni di spettacolo. Possono inoltre ottenere permessi premio che spesso utilizzano proprio per andare a teatro. Le istituzioni – dalla direzione del carcere alla magistratura – riconoscono il valore sociale e formativo dell’iniziativa. Persone tradizionalmente invisibili ottengono così visibilità. «A loro piace andare sul palco ed essere guardate con occhi diversi, si sentono attrici e fanno bene a farlo perché lo sono per davvero», ha aggiunto Cecilia. Per esempio, la storia di Nicole continua fuori dalle mura della casa circondariale di Reggio-Emilia: durante la sua detenzione ha ottenuto permessi per partecipare agli spettacoli e ora che ha scontato la sua pena sogna di recitare ancora una volta. In generale, tutte hanno cominciato a vedersi diverse dalle sole sex worker quali sono state. Spesso, per molte, il teatro è stato l’unico spazio in cui sentirsi accolte per quello che sono realmente. Ma il teatro, da solo, non può bastare. Se sul palco le detenute della sezione Z e quelle transgender hanno trovato uno spazio di espressione e riconoscimento reciproco, nella quotidianità del carcere la realtà resta profondamente squilibrata e dolorosa per molte di loro.
In scena con "House We Left" (foto MaMiMò)
La situazione nella sezione Orione è ancora oggi drammatica. Le persone transgender in carcere continuano a vivere in condizioni di estrema fragilità, spesso invisibili persino all’interno delle stesse mura di detenzione. È quanto è emerso dal convegno regionale dello scorso 9 aprile, parte del programma “Il vostro carcere quotidiano”. A maggio, nella sezione Orione della casa circondariale di Reggio Emilia – l’unica in Emilia-Romagna interamente dedicata a transgender - erano recluse in 11, in prevalenza straniere: una proveniente dal Perù, cinque dal Brasile, una dalla Romania e quattro dall’Italia. In poche settimane, il numero delle detenute è più che raddoppiato, passando da cinque a undici senza che ci fosse un adeguato potenziamento del personale. Luca Di Palma, responsabile dell’area educativa del carcere, ha denunciato: «La sezione soffre di un problema di ricambio del personale e continuità terapeutica. A volte mancano figure fondamentali, come lo psicologo, l’endocrinologo e il ginecologo. E l’interruzione della terapia ormonale è una forma di violenza». A fargli eco è Daniela Cavalieri, responsabile dell’associazione Arcigay Gioconda: «Il problema non è solo medico, è anche sociale. L’isolamento è estremo: queste donne non hanno contatti, non ricevono visite, non parlano con le famiglie. Molte non sono nemmeno registrate all’anagrafe come donne. Questo genera una profonda disconnessione tra identità e riconoscimento, che si traduce in sofferenza quotidiana». "House We Left" ha aperto uno spazio di umanità e riconoscimento all’interno di un sistema che troppo spesso continua a negarlo, soprattutto a chi appartiene a minoranze ancora invisibili. Le donne transgender recluse, nella quasi totalità dei casi, si trovano in carcere per reati minori legati alla marginalità economica e sociale: piccoli furti, spaccio, sex work non regolamentato. In molti casi si tratta di persone migranti, senza reti familiari né assistenza legale solida, che scontano pene più pesanti anche per la sola difficoltà di accedere a percorsi alternativi. Cecilia Di Donato racconta anche che uno degli aspetti più dolorosi da affrontare è l’elevato tasso di recidiva tra le detenute. «Molte di loro tornano dentro dopo pochi mesi dall’uscita perché fuori non c’è nulla. Nessuna rete, nessun supporto. L’alternativa spesso è la strada o lo sfruttamento». La
mancanza di strutture di accoglienza adeguate e di percorsi di reinserimento pensati in modo specifico per la comunità transgender rende quasi inevitabile il ritorno in carcere, in un ciclo che si ripete. Anche per questo il teatro, pur non potendo risolvere da solo situazioni così complesse, rappresenta uno spazio di cura e riconoscimento che può rompere l’isolamento e restituire un’immagine diversa di sé. A rendere ancora più dura la detenzione è la sospensione forzata delle terapie ormonali, spesso dovuta a mancanze strutturali, completa assenza di contributi economici e a continui cambi di personale sanitario. È una violenza silenziosa, come l’ha definita Di Donato, che spezza il percorso di affermazione di sé già fragile, portando disagi psicologici profondi e isolamento. In questo contesto, il teatro non è solo espressione: è cura, è spazio sicuro, è possibilità. Dare voce a queste esperienze, portarle fuori dalle mura del carcere, significa anche restituire dignità a chi la società ha lasciato ai margini. E se una casa è il luogo dove sentirsi riconosciute, "House We Left" è la prova che, anche dentro un carcere, quella casa si può provare a ricostruire. Insieme.
In scena con "House We Left" (foto MaMiMò)