violenza sessuale
Il Palazzo di Giustizia di Bologna (foto Ansa)
La Corte d’appello di Bologna, a otto anni dai fatti e sei anni dopo l’assoluzione in primo grado, ha condannato a quattro anni e due mesi di reclusione il 32enne marocchino Dhabi Amine, accusato di aver violentato, il 3 novembre 2017, una ragazza allora 17enne all’interno di un vagone in Stazione Centrale. L’episodio divenne il centro di un polemico dibattito, innescato da un post su Facebook del parroco bolognese Lorenzo Guidotti, il quale dichiarò di non provare alcuna pietà per la giovane. Frasi che costrinsero la diocesi a scusarsi pubblicamente con la vittima e con la sua famiglia attraverso un comunicato.
La Procura generale, rappresentata dalla pg Silvia Mazzocchi, aveva chiesto sette anni di pena, sottolineando l’assoluta incapacità della vittima di esprimere consenso. L’imputato, difeso dall’avvocato Alessandro Cristofori, che aveva chiesto la conferma dell’assoluzione per insussistenza del fatto e insufficienza delle prove, è attualmente detenuto per un episodio simile, per il quale era già stato condannato. Quell'assoluzione, nel 2017, era avvenuta poco dopo la sua carcerazione. In secondo grado è stata rinnovata l’istruttoria e, nelle scorse udienze, è stata nuovamente ascoltata la giovane vittima. La pg Mazzocchi ha ribadito lo stato di incapacità, causata dall'uso di alcol e stupefacenti, in cui la ragazza si trovava quella sera, citando le testimonianze secondo cui non riusciva a reggersi in piedi ed era fuori di sé. La sentenza ha riconosciuto la responsabilità dell’imputato, escludendo però l’aggravante relativa alla somministrazione di droga alla vittima.
All’udienza e alla lettura della sentenza erano presenti anche la madre e la nonna della ragazza, commosse per il verdetto. «Spero che questa sentenza possa essere utile anche ad altre vittime di violenza inascoltate e non credute, e credo che, anche a distanza di tanti anni, sia un risultato importante in un momento storico come questo», ha detto la madre, che ha aggiunto: «L’imputato approfittò di una ragazza inerme e i giudici lo hanno riconosciuto. Io sono contenta, ma lo sarei stata comunque, perché ciò che conta di più è che ora mia figlia stia bene, dopo anni difficilissimi». «Anche se questo incubo non sarà mai cancellato del tutto», ha concluso, «lei è riuscita a risollevarsi e ora possiamo affrontare insieme il futuro con maggiore serenità e fiducia nella giustizia».
All’epoca dei fatti, secondo quanto ricostruito dagli investigatori, la giovane, che si trovava in Piazza Aldrovandi con alcuni amici, fu avvicinata da due magrebini, tra cui Dhabi Amine. Poco dopo si accorse di non avere più il cellulare che, come scoprirono gli agenti, le era stato sottratto dall’imputato, allora 26enne. Fu lui a convincerla, con la scusa di recuperarlo, a seguirlo in stazione, dove si sarebbe poi consumata la violenza. Il loro tragitto venne ripreso anche da due telecamere. In un vagone del treno, il ragazzo abusò della giovane, che tentò di liberarsi e chiedere aiuto, prima di perdere i sensi e riprenderli soltanto la mattina successiva. Una mattina da cui ebbe inizio il suo incubo. Era il 3 novembre quando la ragazza si presentò all’Ospedale Maggiore raccontando di essere stata violentata la notte precedente in un vagone alla Stazione Centrale.
Nel processo di primo grado, l’imputato si difese sostenendo di non aver avuto alcun rapporto sessuale con la giovane, che aveva assunto alcol e sostanze stupefacenti, circostanza confermata anche da lei. I giudici decisero di assolvere Amine dall’accusa di violenza sessuale, non avendo trovato riscontri sufficienti alla vicenda per come era stata raccontata dalla ragazza. Amine venne invece condannato a quattro mesi e a 120 euro di multa per il furto del cellulare, prima di essere scarcerato nel 2019.
Seguì l'intervento del parroco bolognese Lorenzo Guidotti, che scrisse sui social di non provare alcuna compassione per la giovane. Il messaggio, seppur visibile soltanto agli amici del parroco, fu ripreso dai media, accendendo un violento dibattito. Tanto che, nello stesso pomeriggio, dovette anche intervenire l’arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi, chiedendo scusa alle persone coinvolte e chiarendo che le parole del sacerdote corrispondevano a «opinioni personali, che non riflettono in alcun modo il pensiero e la valutazione della Chiesa, che condanna ogni tipo di violenza». Frasi che costrinsero anche il sacerdote a fare marcia indietro, prima rettificando i toni delle sue affermazioni e poi riconoscendo, in una dichiarazione concordata e diffusa dalla curia, di essersi espresso in modo inappropriato, chiedendo scusa alla ragazza e alla sua famiglia. Queste le parole scritte da don Guidotti su Facebook: «Dovrei provare pietà? No! Quella la tengo per chi è vittima di una città amministrata male, non per chi vive da barbara con i barbari e poi si lamenta perché scopre di non essere oggetto di modi civili». Mentre per lui si erano espressi anche alcuni componenti di Forza Italia e della Lega, decise di rammaricarsi nella dichiarazione diffusa dalla curia: «Con il mio intervento ho sbagliato i termini, i modi e le correzioni. Non posso perciò che chiedere scusa a lei e ai suoi genitori, se le mie parole imprudenti possono aver aggiunto dolore, come invece accadde leggendole». Il suo obiettivo, chiarì il sacerdote che scelse nel frattempo di uscire dai social, era quello di accusare la cultura dello sballo, non la ragazza. «Ci sono riuscito? Sicuramente no!», aveva infine concluso.
Ma le scuse non bastarono a lenire il dolore della madre, ferita da quanto accaduto alla figlia e dalle parole del sacerdote: «Mia figlia ha subito una violenza in un attimo di grande difficoltà. A questo oltraggio si è aggiunto il commento di uno stormo di sciacalli». «Ma quello che ci ha fatto più male», ammise la donna, «è il commento del parroco don Guidotti. Mia figlia è stata vittima e va difesa, non solo da un prete. La colpa è di chi stupra, non di chi è vittima». A queste parole, seguì anche un confronto tra don Guidotti e la madre della ragazza, per provare a chiarire quanto accaduto. Almeno per ora e a distanza di otto anni per la vittima e per la sua famiglia giustizia è stata fatta.