Società

Foto Ansa

 

L’attacco lanciato da Israele contro l’Iran ha aperto una nuova fase del conflitto mediorientale, le cui ripercussioni hanno scosso in profondità anche la società israeliana. In questa intervista, la giornalista e ricercatrice italo-israeliana Sarah Parenzo racconta da Tel Aviv il volto meno visibile della guerra: la nevrosi della popolazione civile, tra bombardamenti, insicurezze e narrazioni polarizzanti. Parenzo ci restituisce la complessità di una società segnata da traumi collettivi, paure e retoriche di guerra, in un contesto in cui dolore e propaganda, intrecciati, rendono sempre più difficile orientarsi. Uno sguardo critico e partecipe, utile per comprendere quanto stia accadendo oltre la superficie dei comunicati ufficiali e delle immagini che ci bombardano nei media, mainstream e non.

 

Da una settimana la popolazione israeliana trascorre le notti nei rifugi anti-bombe. Cosa è successo stamattina?

«Bombardamenti come quelli di stamattina poco dopo le 7 non ne abbiamo mai visti. Molta gente era già uscita di casa quando sono cominciati. Hanno colpito soprattutto la zona intorno a Tel Aviv e l'ospedale di Beer Sheva. Da giovedì scorso siamo in stato di guerra, i missili tirano giù i palazzi come birilli, è tutto chiuso a parte farmacie e supermercati. Poi due giorni fa la protezione civile ha permesso alla popolazione di tornare a lavorare, il che è peggio: immagina, dopo una nottata di allarmi, doversi svegliare e affrontare la strada rischiando la vita e lasciando a casa i bambini senza scuole. Non tutti hanno un rifugio, la gente dorme nei garage dei centri commerciali, in metropolitana. Venerdì scorso sono andata in ospedale mentre trasferivano i malati allettati nei sotterranei. Un’immagine terribile, dantesca».

 

C’erano già state delle avvisaglie?

«No. Giovedì scorso alle tre di notte è arrivato un messaggio mai ricevuto prima sui nostri cellulari, per avvertire dell’attacco all'Iran a scopo preventivo. Rispetto ai missili iraniani dell’anno scorso si è capito subito che questa era un'altra cosa, un pericolo che Israele non conosceva. Adesso siamo chiusi dentro, chi ha un passaporto israeliano per ora non può uscire. Le immagini sono simili a quelle della distruzione di Gaza (che noi israeliani per la maggior parte non vediamo perché vengono censurate dai media mainstream), intere vie di detriti e palazzi scarnificati. Il rischio dell'incolumità e anche di perdere la casa è altissimo. Ci sono già moltissimi sfollati. Se ti va molto bene resti vivo tu, senza la casa».

 

Qual è la strategia di Netanyahu?

«Come spesso succede, tutte le faide interne si sono ricompattate nell'unità militare di fronte al pericolo esterno. Nell'immaginario collettivo israeliano, l'Iran è il nemico per eccellenza e c’è una grande solidarietà interna, per molti aspetti ammirevole. Netanyahu ha riacquisito punti, perché purtroppo il trauma dell'antisemitismo, della minaccia e dell’isolamento lo favoriscono, spingendo la gente ad appoggiare l’esercito e l’intelligence. È un loop pericolosissimo, lui si fa passare come il messia che libera Israele e ora anche il popolo iraniano oppresso! Io mi attengo ai fatti, e la realtà è che dalla settimana scorsa il pericolo è cresciuto in maniera esponenziale, che gli ostaggi sono spariti dagli schermi e a Gaza continua a succedere quello che i media non ci fanno vedere. Io sono solidale con tutti i civili, israeliani, gazawi e iraniani. Non voglio deresponsabilizzare gli israeliani, c’è una forma di rimozione totale in questa società che mi preoccupa molto, una narrazione vittimistica e traumatica estremamente radicata. Ma anche la popolazione israeliana è sottoposta a uno stress tremendo. Se già prima alla gente mancava la consapevolezza per empatizzare con il dolore altrui, figurati adesso, sotto le bombe».

 

Foto gentilmente concessa dall'intervistata

 

Come si vive oggi in Israele?

«Israele è un paese in ebollizione, molto più complesso di come viene raccontato. Da una parte ci sono l’occupazione e la distruzione di Gaza, delle asimmetrie gigantesche da premettere, ma in un’atmosfera impregnata di morte dal 7 ottobre è improbabile che la gente trovi lo spazio per un cambio di mentalità, perché sono tutti ripiegati sul dolore. Questo lutto permanente genera un senso di impotenza, nonostante i movimenti di protesta qui siano comunque importanti e durino da due anni. È importante testimoniare da dentro la complessità dei meccanismi di cui è prigioniera una società e del costo fisico, economico ed emotivo che essi comportano.  Comprendo la rabbia di chi scende in piazza per la tragedia che si consuma a Gaza, però percepisco anche una grande frustrazione di fronte alle troppe manifestazioni di antisemitismo vero, inquietanti. Una cosa è boicottare il governo, una cosa è boicottare i singoli individui che cercano di cambiare le cose da dentro, o peggio prendere di mira gli ebrei della diaspora quali che siano le loro opinioni.

 

Ci sono possibili soluzioni?

«A prescindere da quello che sarà della geopolitica, non dobbiamo perdere di vista l’etica. Ormai il gap tra istituzioni e popolazione è tale, e non solo da noi, che non dobbiamo rinunciare a educare le generazioni al rispetto reciproco, nella convinzione che non possa essere la guerra lo strumento per risolvere ogni problema, senza peccare di ingenuità. Finché non cambierà la mentalità e soluzioni politiche non sostituiranno le armi, come civili continueremo a pagare dei prezzi altissimi. Dal compiacimento disgustoso sui social capisco che questa risposta dell’Iran a molti italiani sembri la legge del taglione, però ricordo che innanzitutto sotto le bombe ci siamo tutti, compresi i palestinesi e gli oppositori».

 

E adesso cosa succede?

«Stiamo tutti aspettando di vedere cosa succede, Trump è molto determinante e sarà ambiguo fino all'ultimo. Il governo ha parlato di un'operazione mirata a determinati obiettivi, ma siamo ormai abituati a vedere fronti che si trascinano all’infinito. Non credo tuttavia che questo livello di distruzione e tutti questi sfollati che ci sono da venerdì possano consentire un fronte sul lungo periodo. Spero di non sbagliarmi, scongiuro il rischio del rilascio di sostanze radioattive e onestamente spero di non rientrare tra le 800-4.000 vittime che si dice il governo israeliano abbia messo in conto progettando questa operazione. Non siamo statistiche, siamo persone. Certo, può essere vero che Israele fa il lavoro sporco per altri, come ha detto ieri il cancelliere tedesco Merz, ma a me anche le posizioni della Germania preoccupano. Bisogna smetterla di disumanizzare le popolazioni. La sua responsabilità ce l'ha anche l'Europa, l’Occidente che di fatto non ha saputo risolvere la questione ebraica, ma solo dislocarla a spese altrui, e forse parte di quello che vediamo è anche questo. Poi non ruota tutto intorno agli ebrei, ma bisogna cominciare a immaginare uno scenario in cui in Medio Oriente potremo dormire di notte col pigiama invece di andare a letto vestiti per scattare in piedi al suono dell’allarme, o accampati nei rifugi pubblici».