CINEMA

David Lynch (foto Ansa)
La scomparsa di David Lynch, il regista tre volte nominato agli Oscar e maestro del grottesco, ha lasciato una profonda ferita nella storia del cinema mondiale. Per celebrarne la grandezza, tornano sul grande schermo tutte le sue opere più amate, una rassegna partita il 14 maggio con Cuore Selvaggio e che si concluderà a gennaio dell’anno prossimo con Inland Empire.
Sperimentale, criptico, underground, spiazzante, onirico. Ma anche rigoroso, materico, reale, comico, nazionalpopolare. Il cinema di Lynch è tutto questo e il suo opposto. Come un pendolo la sua arte ha oscillato fra i generi, passando dal thriller di Velluto Blu all’horror di Eraserhead, dal surreale di Mullholland Drive all’empirico di Una storia vera demolendone gli stilemi per creare qualcosa di unico. Il prossimo appuntamento è il 16 giugno con The Elephant Man, pellicola del 1980 ispirata alla storia vera di Joseph Carey Merrick, uomo inglese di fine 800 affetto da una rara malattia che provoca delle malformazioni in tutto il corpo. Il regista, alla sua seconda fatica, gioca sui topos del genere sperimentando sul sensibile tramite un acceso bianco e nero pieno di contrasti e un gioco di campi e contro campi che rompono le convenzioni narrative sul concetto di anormalità. Con John Hurt (Fuga di Mezzanotte, Alien) come protagonista e Anthony Hopkins nel ruolo del Dottor Frederick Treves, medico che aiuterà quest’ultimo ad ambientarsi nella società londinese, The Elephant Man è solo all’apparenza un classico racconto sulla malattia, nascondendo invece una profonda riflessione sulla bruttezza, sull’orrorifico e sulla fama decostruendo la percezione dello spettatore.
Articolo pubblicato su Quindici n. 4 del 29 maggio