Dc-9 Itavia

L'autore Giorgio Gjylapian, con Marco D’Orazi e Carlo Alberto Nucci (foto di Giulia Goffredi)
Un giudice, un ingegnere elettrico e un avvocato. L’ultimo è l’unico direttamente coinvolto nella vicenda. È infatti parente di due vittime della strage di Ustica del 27 giugno 1980, 81 morti nel mare vicino all'isola del Tirreno. Sul tavolo, in discussione, c'è un libro difficile, doloroso, sempre più necessario da raccontare, secondo l’autore, perché c’è un filo conduttore, dalla trama per certi versi fantascientifica eppure inesorabilmente fondata sui fatti, una sorta di cappio, che collega il disastro del Dc-9 Itavia e l’incidente aereo di Ramstein del 28 agosto 1988, in cui lo scontro tra due Frecce Tricolori causò la morte di tre piloti e 67 vittime tra gli spettatori dell'aeroporto tedesco. Sulle sedie rosse, sotto il tendone del giardino della Casa di Quartiere Giorgio Costa, in via Azzo Gardino 44, un centinaio di ascoltatori. Perché, anche se sono passati 45 anni da quel tragico 27 giugno 1980, il bisogno di capire, discutere, cercare risposte non lascia che questa vicenda si spenga senza aver trovato la verità su quella sera.
A “La cultura del silenzio” di Giorgio Gjylapian, edito da Pendragon nel 2020, ma presentato ufficialmente per la prima volta cinque anni dopo, ieri 4 giugno, è dedicato il primo evento della stagione estiva dell’associazione Civico 32 al CostArena, che come ogni anno realizza delle serate di approfondimento su tematiche care alla nostra città. A dialogare con l’avvocato Gjylapian, che da quando ha perso lo zio Guelfo Gherardi e la compagna Antonella Cappellini cerca di ricostruire cosa sia successo, il presidente della sezione civile al Tribunale di Bologna e della Commissione di disciplina per i notai dell’Emilia Romagna Marco D’Orazi e l’ingegnere elettrico e professore ordinario di Sistemi elettrici per l’energia all’Università di Bologna Carlo Alberto Nucci. Seduti accanto a lui per un debito di amicizia, ma anche per il profondo rispetto verso chi, di fronte alle conclusioni della richiesta di archiviazione della Procura di Roma che, invece di smentirlo, lo rafforzano nelle sue convinzioni, decide di portare nel dibattito pubblico un’ipotesi anche per lui molto dolorosa, ma che, almeno nella ricostruzione della causa dell’inabissamento del Dc-9, si delinea come plausibile al vaglio di tutta la documentazione raccolta.
«Ho sposato la teoria della turbolenza di scia, impropriamente chiamata “near collision”, nello scenario di un’esercitazione militare e non di una vera battaglia aerea», sintetizza l’autore, per poi proseguire: «La teoria che è nota come “quasi collisione” (cioè un collasso dovuto alla turbolenza creata dal sorpasso ravvicinato di un mezzo molto più veloce, un’onda d’urto aerodinamico capace di far collassare le ali di un velivolo, fatte per resistere alla pressione della gravità, ndr) fu proposta per la prima volta dal professor Carlo Casarosa dell'Università di Pisa, uno dei periti della commissione tecnica del giudice Rosario Priore. All’epoca rimase minoritaria, mentre il pubblico ministero Erminio Amelio (a capo della seconda indagine, aperta in seguito alle dichiarazioni dell’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, che parlò di un missile lanciato da un jet francese, ndr) l’ha poi accolta completamente».
Ma di che tipo di esercitazione si sarebbe trattato? Gjylapian spiega: «Era un’operazione nota come “Synadex”, che consisteva in un attacco simulato all’aeroporto di Marsala. L’orario di inizio previsto erano le 21 esatte, cioè 15 secondi prima che il Dc-9 sparisse dai radar italiani». Da una parte, gli avieri a terra si esercitavano a difendere la base, dall’altra quelli in volo cercavano di sfuggire alla rilevazione fino all’ultimo. Continua l’autore: «Si inseriva una cassetta con delle tracce fasulle a cui si aggiungevano aerei veri in esercitazione di attacco, come in un primitivo videogioco. La mia ipotesi è che il finto aggressore si fosse posizionato sotto l’aereo civile per non essere individuato dai radar, salvo poi accelerare quando il Dc-9 iniziò a scendere verso Palermo Punta Raisi, con leggero anticipo sul previsto». Un’accelerazione fatale, che avrebbe causato la disintegrazione in volo del velivolo Itavia.
Chi poteva essere a bordo del jet militare? Secondo l’avvocato, un pilota italiano o forse uno francese, dato che non era raro che i nostri Paesi collaborassero durante le esercitazioni dell'aeronautica. In particolare, nel mirino ci sono le basi di Poggio Ballone, nel Grossetano, e di Solenzara, in Corsica, dove potevano atterrare anche gli aerei italiani.
Tra i piloti segnati sui registri della base di Poggio Ballone, quel pomeriggio, c’erano anche Ivo Nutarelli e Mario Naldini, all’epoca istruttori di volo, destinati a essere protagonisti, otto anni dopo, del triste episodio di Ramstein. Il 28 agosto 1988, infatti, durante un’esibizione delle Frecce Tricolori, Nutarelli centrò l’aereo di Naldini, portando alla morte di entrambi, oltre che di decine di altre vittime. L’avvocato Gjylapian motiva così il collegamento con la strage di Ustica: «Quindici giorni prima di Ramstein, il primo giudice istruttore Vittorio Bucarelli (cui sarebbe subentrato, poco dopo, Rosario Priore, ndr) mandò la polizia giudiziaria a controllare i nastri di volo della base di Poggio Ballone, la quale li trovò palesemente contraffatti, con pagine alterate e fogli mobili. Non si poteva quindi provare la fine ufficiale dei voli, dichiarata per le 20:35-40, cioè diversi minuti prima della caduta del Dc-9». Alla luce di tutto questo, con evidente sofferenza, l’autore arriva a ridurre le ipotesi dietro l’incidente di Ramstein a due: «Un omicidio-suicidio o un malore. Non fu un banale errore del pilota, dato che era uno dei migliori al mondo, né un sabotaggio, perché non coerente con la dinamica dell’incidente e perché non avrebbe certo garantito l’eliminazione di tutti e i due testimoni».
Una ricostruzione dolorosa, quella di Gjylapian ne “La cultura del silenzio”, ma suggestiva nella sua argomentazione ed elegante nella sua esposizione, che cerca di portare all’attenzione una vicenda tormentata su cui non si può smettere di provare a fare luce. Che si parli, che si discuta di Ustica, perché solo a una storia che non muore si può mettere la parola “fine”.