Musica

Samuele Bersani all'Europa Auditorium (foto di Paolo Pontivi)

 

«Bologna è ormai diventata un tubo digerente. Sono rimasto a vivere qui perché sento ancora la presenza di Lucio. “Capitalizza il dolore” mi disse. E io, dopo una delusione d’amore, scrissi “Canzone”. Devo tantissimo a lui e alla nostra amicizia».

Dopo due rinvii, Samuele Bersani e la sua Ensemble Orchestra tornano all’Europa Auditorium per un finale di tour che, sì, ha un po’ il sapore della celebrazione, del tributo alla sua carriera ormai trentennale, di quell’auto-omaggio che solitamente è il prodotto di qualcosa di già sentito, di già visto. Non è questo il caso e ben venga la celebrazione quando essa sia condita dalla sostanza.

Bersani, che ne ha, fin dal primo incontro con Lucio Dalla che se lo portò con sé in tour nel 1990, è riuscito a sperimentare gli angoli più classici del cantautorato italiano, dei bei testi, di quegli accostamenti di parole intelligenti che, oggi, anche a costo di essere un po’ demagoghi e un po’ populisti, sembrano passati a miglior vita, altroché di moda.

Il sipario si alza con le note de “Il Mostro”, il brano che il cantautore presentò per la prima volta proprio a Dalla nel 1992, come a dire che l’uomo è vittima delle proprie debolezze e dei propri demoni, dei propri desideri non realizzati, anche dei sogni, ma «l’unica cosa evidente è che il mostro ha paura, alla ricerca di un posto lontano dal male». Un male anche fisico, il tumore ai polmoni che Bersani ha attraversato e superato «e dedico questo pezzo che seguirà, “Spaccacuore”, a una persona che è qui in sala. È Carlo Fabbri, un medico. Un amico. Ha capito che non era un semplice mal di schiena e se non ci fosse stato lui probabilmente non sarei qui». In mezzo a un pubblico caloroso, di tutte le età, che intona i successi e accompagna con una lacrima e con un dito sul tasto rec dello smartphone i nuovi arrangiamenti orchestrali dei brani, sfidando la voce baritonale di Bersani.

«Dopo tutti questi rinvii, mi aspettavo un po’ di tradimento, lo ammetto. Ho speso un po’ di ore su Ticketone a guardare i pallini che rappresentano i posti a sedere. Pochi hanno rinunciato a questo concerto, e per me è stata una carezza. Cantate con me, anche se so che soprattutto per le donne è difficile. Cercano di prendere la nota un’ottava sopra e lì, beh, si va verso il “delfinario”». Tra battute e complici risate di quel pubblico «gentile e affettuoso, mi sento a casa. Quando sono stato poco bene i bolognesi non mi dicevano “coraggio”, mi dicevano “vai campione!”. Oggi Bologna è ormai in mano ai turisti e noi siamo diventati un paese di investigatori e di indagati. Non è più la magistratura a dare notizie ai giornalisti. È il contrario. Sembra che i giornalisti siano diventati all’improvviso tutti magistrati».

Poi ancora tra un brano e l’altro, le osservazioni e i pensieri di Bersani si declinano con coerenza, in un discorso che “fila” al di là della condivisione o meno del sottotesto che emerge. Ci si sente tutti un po’ come quello “Scrutatore non votante”, del 2006, che «prepara un viaggio ma non parte, pulisce casa ma non ospita, conosce i nomi delle piante, che taglia con la sega elettrica». Ci cascano tutti almeno una volta e «non è accettabile che ci siano dei politici che invitano al non voto. Che poi, a guardare bene, mi sono reso conto che molte mie canzoni parlano proprio di me. Adesso canto “Harakiri”, la storia di un uomo “chiuso in un cinema porno francese, che venne fuori vestito di bianco e sembrava una lucciola in mezzo a un blackout”. Ecco, io mi sono vestito di bianco solo una volta, negli anni ’80. Ero ancora minorenne, suonavo con una band a Cattolica. Avevo una sahariana lunga. Chiesi al chitarrista di accompagnarmi in un cinema a luci rosse. Era la prima volta per me. Il cinema era a San Giovanni in Marignano, il paese dei miei nonni. Entro in sala e lungo le pareti c’erano quelle luci bianche che risaltano ancora di più i colori tenui. Sento qualcuno che dice in dialetto romagnolo: “a guerd, l’è il fiol Bersani”».

Quel “fiol Bersani” che poi scriverà e canterà “Freak”, “Cattiva”, “Giudizi Universali”, “Chicco e Spillo”, solo per citarne alcune. Brani che dietro all’apparente semplicità e giocosità dei testi e delle melodie nascondono le difficoltà della vita, i dubbi esistenziali che spesso costringono all’immobilità e all’apatia, con il rischio di «finire l’aria dentro al serbatoio», prendendo alla fine coraggio per chiedere aiuto «alla torre di controllo», aggrappandosi a tutto ciò che ancora di bello circonda e affolla le ore della giornata, con l’ultima speranza di «togliere la ragione e sognare in pace. Sognare in pace».