Esteri

Bandiera Palestinese (Foto: Ansa)

 

“Al shatat” e “sumud”, diaspora e resilienza sono le parole che tracciano la geografia dei tanti palestinesi esuli per il mondo. Figli senza terra, forzati ad abbandonare le proprie case, hanno saputo costruire traiettorie di vita nuove e, insieme a queste, nuove identità. Uguali e diverse. Tutte accomunate da un solo richiamo: la Palestina. Dal 1948, anno della “nakba”, letteralmente catastrofe, migliaia di palestinesi - 726 mila all’epoca, pari circa al 70% della popolazione - fuggono dai propri quartieri, distrutti o occupati dai coloni israeliani. Alcuni dei quali troveranno rifugio sotto le Due Torri. Come riflette Carmen Caruso, ricercatrice in studi sociali, l’identità palestinese ha caratteri peculiari, è profondamente legata al concetto di viaggio, ma è una condizione lontana da qualsiasi forma di “estetizzazione postmoderna del nomadismo”. Nessun romanticismo, nessuna rotta volontaria, solo rovine e l’angoscia dell’esilio. “Nazionalità indeterminata” è la dicitura impressa sui lascia passare, i visti rilasciati dalle autorità israeliane a chi tenta di ottenere un passaporto. Segno tangibile del destino incerto nonché della provenienza inconsistente cui sono condannate una generazione dopo l’altra. Negli anni, la migrazione forzata continua con l’intensificarsi delle violenze sioniste, per culminare nella seconda metà degli anni ‘60. Al di qua del Mediterraneo sono tanti coloro che hanno trovato un approdo. In Italia, lo snodo degli arrivi è l’Università per stranieri di Perugia, prima porta verso l’integrazione. Un certificato linguistico e l’effettiva possibilità di studiare. Ad accomunare i propositi palestinesi, non a caso, è la profonda fede nel titolo universitario, come strumento di emancipazione. Mettere radici, ottenere un lavoro qualificato e fare famiglia: la via per ricucire lo strappo dell’abbandono. 

È stato così anche per C., proveniente dalla Cisgiordania e residente sul territorio bolognese dal 1977. Per lui, il sogno dell’istruzione si è avverato attraverso i figli e le figlie, tanti e plurilaureati. «È una grande soddisfazione, non capita spesso che nelle famiglie siano tutti laureati. Io, invece, ne ho alcuni ingegneri, altri medici o specializzati in economia» gioisce spontaneo. Pochi secondi dal collegamento, irrompe nella chiamata una voce affettuosa, è un nipote, vero gioiello di C. 

Eppure, non sono stati semplici i primi passi in Italia: l’impegno universitario sempre accompagnato dal lavoro e la seguente rinuncia, obbligata da ragioni di carattere economico. Senza darsi per vinto, avvia un’impresa edile e, insieme alla moglie, costruisce una famiglia numerosa. La Palestina è sempre nel cuore, alla domanda su un eventuale ritorno replica: «Certo che vorrei tornare, la nostra terra è un luogo bellissimo dove vivere. Non esiterei a chiudere tutto e andare, ma questo non è possibile - asserisce consapevole - ho fede che un giorno ci sarà verità». 

Al civico 24 di via Centotrecento, incastonate fra i portici, due porte dal rimando orientale spezzano il susseguirsi di rosso mattone degli edifici. Arrivano da lontano, da quando nel 1991, Jamil Shihadeh, farmacista originario di Gerusalemme, decide di aprire Al Salam, il primo ristorante palestinese in città e portarle con sé. Una volta varcate, non si è più circondati da bugiardini e medicamenti ma da spezie e kebab, l’anima della cucina mediorientale. Eppure, è solo alzando lo sguardo che ci si ricorda di essere nel 2025: il tabellone del menu illustra i piatti della tradizione palestinese in veste grafica di street-food. Al netto di fraintendimenti, come recita l’insegna di merito Gambero Rosso nel 2023, da Ciao Kebab viene servito solo del “Kebab squisito e Falafel artigianali”. È questo il mantra di Omar Shihadeh, 35 anni, titolare e figlio di Jamil che dal 2021 ha preso in mano l’eredità del padre. Con il cuore fermo alle tradizioni: «Né ketchup né maionese entrano nel mio locale» riecheggia orgoglioso e lo sguardo, verdissimo, aperto al futuro. L'obiettivo, però, è sempre lo stesso: coniugare gusto e salubrità del cibo. Poteva fare altrimenti il figlio di un farmacista? «Ci tengo a chiarire che il kebab non è cibo malsano, lo rende nocivo chi si improvvisa e lo snatura» puntualizza Omar. Ad accompagnare il pasto, un ambiente dal calore bolognese e il sentore speziato. Le lavagne cancellabili, appese alle pareti come quadri, sono la traduzione grafica di un’accoglienza che va oltre il gusto della convivialità, lascia libertà d’espressione. A fianco, foto storiche dei genitori. Il volto pieno e rassicurante del padre dà la grafica al marchio, affisso sul bancone e nelle lampadine a illuminare lo spazio circostante. A rimanere nell’ombra è solo la segreta miscela di spezie. Quella, dal 1991 ad oggi, si tramanda di padre in figlio. 

Lo slancio imprenditoriale del giovane ristoratore incontra l’attenzione per le vicende internazionali. Di fronte a sé ha le immagini di Gaza, l’orrore indicibile del suo popolo, sbiadito a malapena dalla lontananza geografica. Interrogato sulle reazioni in città ai tragici eventi dell’ultimo anno, si racconta, offre il suo punto di vista, pacato ma senza esitazioni: «Condivido le ragioni delle proteste ma so bene che non cambierà nulla». Il problema, come sostengono le organizzazioni che hanno animato le proteste in Piazza Maggiore dopo il 7 ottobre 2023 – data che ha, di fatto, riacceso il conflitto israelo-palestinese - è che l’Italia e le sue università continuano a intrattenere rapporti commerciali con università e aziende israeliane. In nome del profitto si accetta tacitamente l’invio di armi ai danni di civili innocenti. Lo sdegno della comunità palestinese è però difficile da intercettare, in quanto privo di un’organizzazione strutturata. La maggior parte di loro rimane defilata, poiché comprensibilmente preoccupata di esporsi. Elevato il livello di solidarietà raccolto fra italiani e residenti di varie nazionalità arabe. 

Dello stesso parere è P., giovane palestinese raggiunto al telefono da InCronaca, che ha chiesto di rimanere anonimo. Assegnista di ricerca in materie scientifiche, fa sua la causa dei diritti umani. Dedica il suo lavoro a coloro che subiscono violenze di confine, lo fa attraverso lo studio di scenari ed edifici dove queste avvengono. Preparato, dall’altro capo della cornetta ripercorre con minuzia le tappe che hanno segnato la diaspora del suo popolo attraverso quella della famiglia. Nasce in Italia da genitori fuggiti dalla Palestina occupata. Il padre, dopo la Guerra dei sei giorni del 1967, giunge in Giordania, per poi dedicarsi agli studi in ambito medico nella Bologna degli anni ‘70. La madre, laureata in materie scientifiche, lascia dietro a sé un’azienda operante nel settore informatico e si reinventa. «Il nostro impegno nello studio, il nostro senso di riscatto vengono da una sofferenza di fondo e da un enorme spinta di libertà. Più di tutto, sogno di tornare in Palestina», si svuota tutto d’un fiato. «Pensi sia fattibile?» gli si domanda. «Difficilissimo, ma nella storia sono successe tante cose infattibili». Anche che una persona con visto palestinese veda la Spianata delle Moschee, il suo luogo del cuore. 

 «Di dove siete?» la risposta di Rema fu schietta e insieme precisa: «Di qui» disse semplicemente. L’impossibilità ad aggrapparsi a un riferimento spaziale della giovane palestinese, rintracciabile in un passo di “Passengers Palestina”, catalizza l’esperienza di un popolo privato del diritto all’abitare. Una storia che interroga e inquieta, dove i silenzi dell’Occidente illuminano ipocrisie e zone franche del diritto internazionale. Dov’è finita l’autodeterminazione dei popoli? C'è sordità di fronte alla risoluzione Onu 194 del 1948 sul diritto al ritorno dei profughi palestinesi alle terre d’origine. Quanto alla tanto decantata soluzione “due popoli due Stati”, le persone intervistate da InCronaca sono chiare: «Dopo quello che è successo chi ancora ci crede è un idealista».