Volontariato

Lezioni al dopo scuola "Le aule di Alessia e Chiara". Foto fornita da Gabriella Pirazzini
Aprire porte là dov’è un susseguirsi di mattoni e vicoli ciechi. Varchi verso l’integrazione e un futuro possibile. Fuori dai labirinti della disperazione in cui tante famiglie, con figli portatori di disabilità cognitive o in condizioni di disagio socio-economico, vagano senza meta. È l’impegno instancabile che l’associazione di volontariato “Le aule di Alessia e Chiara”, porta avanti da diversi anni sul territorio imolese. Assistere ragazzi svantaggiati offrendo lezioni pomeridiane per compensare quel dislivello inaccettabile di opportunità, che si consuma fra chi può permettersi ripetizioni a pagamento e chi è destinato al deserto educativo.
Il progetto prende forma sulle orme della Fondazione Matteo Bagnaresi, anch’essa attiva nel sostegno all’istruzione dei più giovani, a Parma. Tre storie di perdita, tre ragazzi tragicamente scomparsi in incidenti stradali, tre madri che decidono di accendere la memoria con il combustibile della solidarietà. Così «per non so quale volgersi del destino ho accettato la proposta di Cristina, mamma di Matteo, di replicare il progetto anche a Imola» confessa Gabriella Pirazzini, giornalista e scrittrice, di recente uscita in libreria con “Dove non si parla di me” (Giraldi editore). Gli inizi raccolgono il supporto del Comune che mette a disposizione i locali, di lì a breve non tarderanno a rispondere donatori e volontari. Una schiera laboriosa formata in gran parte da professionisti in pensione, ex-ingegneri, laureati in materie scientifiche e perfino due sindaci con il tricolore riposto da tempo. Tutti dallo spiccato livello culturale e la mano tesa verso l’altro. Non mancano docenti, seppur in quantità minore. Fondamentale la presenza di una neuro-linguista, figura ponte per i ragazzi con disabilità cognitive e disturbi specifici dell’apprendimento. «Il suo intervento è stato la chiave che ha aperto la relazione con bambini portatori di particolari fragilità. è capitato anche che fornisse il primo l’allarme ad alcune famiglie, facilitando la ricerca di una diagnosi» esprime con sollievo Gabriella.
Si parte con quindici ragazzi delle scuole medie, considerata la delicatezza dell’esito formativo in fase pre-adolescenziale, per poi ampliare il servizio alla fascia 6-10 anni. Non mancano casi di proficua continuità, dove il ragazzo è accompagnato fino al biennio superiore. Una scelta lungimirante, in sintonia con le scoperte sociologiche attinenti: in terza media si è al bivio, i percorsi si ramificano, essere ritenuti idonei a frequentare una scuola superiore piuttosto che un’altra avrà un impatto su tutte le opportunità formative seguenti, nonché di vita. Meglio assicurarsi che le diseguaglianze non ci mettano lo zampino. Questo l’obiettivo del doposcuola, oggi offerto a novantacinque ragazzi in tutto.
Un lavoro che mescola sudore e meraviglia: «È una gran fatica, tutte le settimane occorre incastrare gli orari. Le nostre lezioni sono singole, si mantiene il rapporto uno a uno, ma la soddisfazione nell’osservare i loro progressi è impagabile. Più di tutto, vederli felici di tornare, cosa non scontata dato l’orario pomeridiano e l’impostazione educativa che abbiamo scelto. Qui non è un oratorio, lo ripeto sempre: non si viene per passare il pomeriggio, ma per studiare», è ferma la promotrice nel racconto. Un servizio che sembra, a tratti, voler compensare le carenze del sistema scolastico che «non cerca il talento individuale, il tesoro che ogni ragazzo, anche se fragile, ha dentro». Manca il posare lo sguardo su chi sembra perduto, l’ascolto di chi ha perso la propria voce. Come Sara (nome di fantasia), ragazza ucraina giunta in Emilia dopo lo scoppio della guerra, in apparenza muta. Per il trauma e la vergogna di non conoscere la lingua italiana: «abituata com’era a voti brillanti nel suo paese, trovandosi lontana da casa, strappata alle amicizie, di fronte a una lingua estranea, si era chiusa e per mesi non ha voluto dire nulla». Poi, gesti banali, un buongiorno e buonasera come allenamento quotidiano, l’affetto della vicinanza e Sara torna a esprimersi. È solo una delle tante storie che affollano il lungo corridoio fra le aule. Fra le più significative anche quella di Riccardo (altro nome di fantasia), bimbo con disturbi dell’apprendimento. Posto di fronte a un quaderno, gli occhi scorrono come fra geroglifici, ma, con l’intervento della neuro-linguista, le lettere iniziano a prendere forma, fino alla scrittura autonoma. Piccoli miracoli, di chi supera il deficit dell’attenzione prolungando la concentrazione da quindici minuti a un’ora di compiti o chi, disgrafico, sogna di scrivere in corsivo per conquistare l’uguaglianza: «La vera impresa è farli rimanere dentro al circuito scolastico», come rivela Gabriella.
Alla domanda che attanaglia tanti educatori: qual è il segreto per liberare il potenziale dei ragazzi ritenuti “difficili”? La giornalista con semplicità: «Porsi in ascolto, non giudicare e coinvolgere la famiglia, dare anche a loro la voglia di crederci. I ragazzi hanno bisogno di sentire che noi crediamo in loro».
È l’effetto Pigmalione di mani e sguardi che plasmano con empatia la difficile scalata verso l’autodeterminazione.