Fine Vita

A causa del vuoto normativo, molti pazienti si recano in Svizzera per morire con dignità (foto: Ansa)
Il Tar dell’Emilia-Romagna ha accolto l’istanza di sospensiva delle delibere regionali sul fine vita che, dal 2024, consentivano di dare attuazione al suicidio medicalmente assistito sul territorio regionale, pur in assenza di una legge organica nazionale.
La misura (quasi un atto dovuto), che si inserisce nell’iter procedurale del ricorso in annullamento - presentato dalla consigliera di Forza Italia Valentina Castaldini - ha portato al blocco temporaneo dell’efficacia delle delibere fino alla decisione definitiva. Una perdurante incertezza per una delle tre richieste di morte assistita che, negli ultimi mesi, sono state presentate sul territorio regionale (due iter si sarebbero conclusi, secondo Corriere Bologna), in balia di un dibattito politico che si trascina nella pratica dei fatti e nelle more del processo amministrativo.
«Una delibera non può, a mio parere, entrare nel dettaglio della vita delle persone. È necessaria una strada comune, un dibattito nazionale», ha detto Castaldini all’Agenzia Dire, come a dimostrare la necessità che le Camere rappresentative di uno stato democratico, al di là di qualsiasi fazione o credo politico, intervengano definitivamente su una questione delicatissima.
Considerando il meccanismo giudiziario e legislativo nazionale, imperniato su una stretta concretizzazione del principio della separazione dei poteri, non sono bastate le indicazioni della Corte Costituzionale. Nel 2019, con la sentenza n. 249, i giudici della Consulta avevano ammesso, pur con limiti stringenti, un ambito di aiuto al suicidio non punibile, nel caso in cui il malato, che si trovi in particolari condizioni fisiche, manifesti tale volontà con una richiesta espressa, non sorgendo comunque alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici.
Proprio seguendo le indicazioni della Corte, la Regione aveva confermato la competenza del Comitato regionale per l’etica nella clinica (Corec) a valutare le richieste di suicidio assistito pervenute da pazienti affetti da patologie irreversibili, da cui derivino sofferenze fisiche o psicologiche ritenute soggettivamente intollerabili, che sia tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e sia pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.
Una questione, insomma, che coinvolge quegli aspetti umani e di sensibilità più intimi. Una questione che ormai da vent’anni, dai casi di Piergiorgio Welby e di Eluana Englaro, ha diviso e unito l’opinione pubblica. Che si è spesso trovata di fronte un parlamento silente, perché è più comodo. Nascondere la polvere sotto il tappeto, fare finta che tutto vada bene, ignorare le indicazioni precise e inequivocabili di una Corte Costituzionale che dovrebbe garantire, al massimo grado, quei diritti inviolabili della persona umana. Una Corte che più che esortare il parlamento a intervenire non può fare. Un vuoto normativo che, comunque la si pensi, si aggiunge alla sofferenza estrema di chi si trova nelle condizioni di poter scegliere il modo migliore di morire, ma non può farlo. Diritto alla vita sì, purché, per la sua completezza, divenga speculare al diritto di non soffrire inutilmente. Ed è, in fin dei conti, un problema di scelta, un problema molto più semplice di come a prima vista appare. Là dove la libertà vera si misura proprio con l’estensione più elastica possibile delle opzioni di scelta che ci troviamo davanti. In qualunque caso e a qualunque costo.