Religioni

Francesco (foto: OpenVerse)

 

Era il 27 marzo 2020, poco più di cinque anni fa. Eppure sembra un'eternità. E c’è chi diceva (o sperava) che ne saremmo usciti migliori, con più attenzione e amore verso il prossimo, verso l’ambiente, concretamente figli e allievi di una carità e di una compassione ben salda, ben oltre i precetti della chiesa cattolica o di qualsiasi credo religioso. Che appartiene alle differenze, alle minoranze, ai potenti così come agli esclusi.

Il 27 marzo 2020, nel pieno della pandemia, in una piazza San Pietro deserta, Papa Francesco chiedeva al suo Dio «di non lasciarci in balia della tempesta», illuminato dalle fiaccole sul sagrato, il passo deciso verso l’altare, la veste bianca agitata dal ponentino romano che in quelle settimane, insieme al cielo sereno e a un’aria finalmente pulita, profumava di una primavera appena iniziata. Una primavera ignara e prigioniera di un virus che avrebbe dato al pianeta la possibilità di riflettere, di rimediare agli errori più grossolani, di fare tanti passi indietro, molti meno di quanto il semplice movimento di uno in avanti risolutivo e di redenzione avrebbe richiesto. Una storia tutta al condizionale, ancora qui a tenere in mano una margherita con tutti i suoi petali. Un “m’ama non m’ama” fatto di infiniti “se”. Se avessimo fatto prima la tal cosa, se fossimo stati in grado di fare la tal altra. Se, se e ancora se.

Certo, se ne è andato e «torna alla casa del Signore» (come da formula preconfezionata e recitata dal cardinale Farrell) un Papa. Quel Francesco che, in omaggio alla discrezione, al rifiuto dei protocolli eccessivamente rigidi e dell’ostentazione paradossale e volgare dei vertici ecclesiastici, aveva scelto il nome del santo di Assisi. Che vestiva di stracci, camminava a piedi nudi e includeva nel suo piccolo universo terreno le frange più deboli e reiette dalla società.

Ma è soprattutto l’uomo, Jorge Mario Bergoglio, argentino di origini piemontesi, con le sue debolezze, le sue intemperanze, la manifestata volontà di rinnovare e riformare un’istituzione ormai stantia e avulsa dalla realtà dei fatti e dei pensieri.

Se ne andato un uomo che deve rimanere tale. Fatto di carne e ossa, spinto da quei desideri, da quelle pulsioni che caratterizzano gli esseri viventi, ancor di più se sono capaci di riflettere e di scegliere. Il miglior omaggio che si possa fare a Bergoglio è proprio quello di fissare il suo pontificato in una dimensione totalmente umana. Lasciando scorrere come l’acqua fresca le esternazioni di chi già grida alla beatificazione, alla santificazione, all’ascesa nei cieli di un essere ultraterreno, messaggero di un Dio che spesso e volentieri si rivela sempre più pigro, forse disilluso, magari deluso di ciò che siamo diventati. 

Un uomo, e solo dopo un Papa, che ha cercato di avvicinare i più scettici a una fede che è sempre più difficile da trovare e da accettare, che ha cercato di oltrepassare i limiti fisiologici di un’istituzione rigida e profondamente patriarcale qual è la Chiesa cattolica nel suo complesso. Dove le contraddizioni e le idiosincrasie sono diluite e miscelate ai propositi di carità, di perdono, di redenzione, di assoluzione da peccati supposti “originali”, nel tedio di funzioni che rischiano di allontanare ancora di più, di separare definitivamente la dimensione umana da quella spirituale.

Un uomo che ha agito correttamente e che ha anche sbagliato. Una banalità direte voi. Eppure, è proprio la dimensione vitale, carnale e terrena di Francesco che ci suggerisce la necessità di prendere atto dello svolgersi umano e fallibile del suo ruolo come Vescovo di Roma. Che ci impone di guardare con il sorriso (o con l’indignazione) alle “cadute di stile”  che un maschio bianco al vertice di uno Stato quasi inevitabilmente non può esimersi dall’affrontare. Chiedendo poi perdono, o semplicemente scusa, non tanto al mandante diretto della sua attività terrena, quanto all’emanazione più semplice, e finanche elementare, del mistero della creazione. Un altro essere umano. Cosa che Bergoglio ha fatto sempre, lasciando finalmente da parte quell’attività così cara ai capi di Stato che ancora può essere riassunta con l’efficace espressione “arrampicarsi sugli specchi”.

Ecco, al netto di tutto, l’uomo Francesco è sempre rimasto lontano da quegli specchi, risultando a volte scomodo, a volte quasi eversivo nella sua tradizionalità intrinseca, in un paradosso che è ancora difficile sciogliere. Nella presa di coscienza di essere parte di un complesso meccanismo di interessi, ipocrisie e  ingiustizie che desantificano, senza possibilità di appello, un’istituzione che ha le fattezze di un bradipo ma l’anima di un astuto felino.

Un’istituzione fatta di uomini, della quale Francesco rappresentava forse la parte migliore, quella più sincera e spontanea, quella più vicina a come siamo noi, credenti e non, pur sempre comuni mortali. Noi che cadiamo, ci rialziamo, cadiamo di nuovo, commettendo gli stessi errori. Forse incapaci di perdonare e di perdonarci una volta per tutte.

 

Francesco a San Pietro il 27 marzo 2020 (foto: Ansa)

   

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