vittime terrorismo

Alle 20.07 del 19 marzo 2002 un commando formato da tre brigatisti – due in motocicletta, nascosti da caschi integrali, e uno a piedi – uccide a colpi di pistola Marco Biagi, giuslavorista e docente di economia all'università di Modena.

Solo pochi minuti prima il professore, appena sceso dal treno che veniva da Modena, aveva chiamato la moglie, comunicandole che stava per arrivare. Inforcata la sua bicicletta, Biagi si era diretto verso via Valdonica 14, nell’ex ghetto ebraico, dove abitava.

Due uomini intanto lo seguono da lontano, monitorando i suoi movimenti. Sotto casa, l’agguato che gli costa la vita: alle 20.15 Marco Biagi muore nonostante l’intervento degli operatori del 118. È l’ultima vittima del terrorismo di estrema sinistra: le Nuove Brigate Rosse – che tre anni prima avevano ucciso a Roma il giurista Massimo D’Antona con la stessa pistola – vengono fermate il 2 marzo 2003, quando durante un normale controllo della PolFer su un treno regionale Roma-Firenze i leader Mario Galesi e Nadia Desdemona Lioce aprono il fuoco contro gli agenti. Uno di loro muore, ma prima riesce a sparare e uccidere Galesi. Lioce invece viene arrestata e attualmente sconta l'ergastolo all'Aquila in regime 41-bis.

22 anni fa Marco Biagi doveva morire: era stato scelto come consulente del ministero del Lavoro e il suo Libro bianco sul mercato del lavoro non piaceva ai brigatisti, che temevano una diminuzione dei diritti dei lavoratori.

Il Libro bianco proponeva, tra le varie cose, una maggiore flessibilità del lavoro. Le Nuove Br temevano soprattutto i discorsi attorno alla flessibilità in uscita, cioè la possibilità, da parte delle aziende, di adeguare i meccanismi di cessazione del rapporto di lavoro con i propri dipendenti alle esigenze organizzative interne. Come però riporta un articolo de La Stampa del 25 marzo 2002, Biagi non fu mai particolarmente interessato alla flessibilità in uscita: ciò che gli interessava, piuttosto, era avviare un ciclo di riforme del sistema contrattuale e delle regole delle relazioni sindacali.

Biagi e la sua squadra avevano svolto un’attenta analisi del mercato del lavoro italiano, evidenziando le sue inefficienze, colpevoli di un tasso di attività molto basso, e proponendo possibili soluzioni. È vero, comunque, che Biagi era convinto – lo era fin dalla sua tesi di laurea negli anni Ottanta – che nel codice civile italiano il potere organizzativo e direttivo dell'azienda spetti esclusivamente al datore di lavoro, e non possa quindi essere sindacato dalla magistratura del lavoro: un’ordinanza di reintegrazione nel posto di lavoro, quindi, sarebbe illegittima. È altrettanto vero che il Libro bianco conteneva elementi ancora oggi oggetto di discussione – come il depotenziamento del contratto nazionale e la necessità di salari soggetti a differenziazione territoriale –, tuttavia l’obiettivo ultimo di Biagi era aumentare il numero di contratti a tempo indeterminato, capendo quali ostacoli normativi potessero impedirne una maggiore diffusione. Soprattutto, nel Libro non si parla mai di licenziamenti, che sarebbero stati chiaramente controproducenti rispetto all’obiettivo di accrescere l’occupazione, ma questo non risparmiò numerose critiche, prime tra tutti quella di Sergio Cofferati – sindacalista e politico, allora leader della Cgil –, che definì il testo «limaccioso».

La Legge Biagi, che verrà poi approvata il 14 febbraio 2003, rinnovò in effetti il mercato del lavoro, nel bene e nel male, secondo i giudizi che suscitò. Tra le varie cose, vennero introdotti nuovi contrattico.co.pro, contratto di lavoro intermittente, lavoro occasionale – e modificati contratti già esistenti – come quello di apprendistato. Nacquero procedure di certificazione per verificare il rispetto e la corrispondenza del contenuto di un contratto di lavoro alla legge, la Borsa continua nazionale del lavoro, per fare incontrare meglio domanda e offerta, e si favorì l’occupazione femminile garantendo agevolazioni contributive del 25%.

 

In foto Marco Biagi a fine anni Novanta. Licenza Creative Commons