Permesso di soggiorno

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Salendo sulla rampa dell’ingresso ti accoglie un vocìo gioioso. Una decina di bambini, di diverse età, gioca in cortile. Si rincorrono, ridono, lanciano gridolini. Non parlano nemmeno la stessa lingua ma non gliene importa. Giocano insieme. Fuori dalle porte i loro genitori in fila con altri migranti. Aspettano di essere chiamati allo sportello per richiedere l’asilo, per rinnovare il permesso di soggiorno: un’ordinaria mattinata all’ufficio immigrazione, della questura di Bologna, di via Paolo Bovi Campeggi. Arrivano da tutte le parti del mondo. Nigeriani, somali, ciadiani, camerunensi, etiopi, angolani, marocchini, algerini, libanesi, tunisini, egiziani, siriani, pakistani, indiani, nepalesi, cingalesi, ucraini, filippini, cinesi, ma anche peruviani ed equadoregni. Ognuno porta con sé sogni e speranze per il futuro. C’è chi spera di trovare un lavoro stabile, chi vorrebbe comprare una casa. Alcuni sperano di poter proseguire il viaggio negli Stati Uniti, Canada, Australia o anche in Gran Bretagna, Svezia. C’è chi si accontenta di vivere lontano dalla guerra.

«È dura stare lontano dai propri cari, dover imparare una nuova lingua. Nessuno se ne va da casa volentieri a meno che non sia un delinquente – spiega l’avvocato Pietro Mancini –. Solo l'un percento degli stranieri che ho seguito nel tempo aveva problemi con la legge, gli altri arrivavano con l’intenzione di lavorare per migliorare la propria condizione economica. Ho conosciuto delle persone che con lo tsunami del 2004 in Sri Lanka avevano perso tutto – continua –. Sono stati costretti a emigrare per provare a ricostruirsi una vita. Tanto dolore ma a volte si riesce a strappare qualche sorriso». Pietro Mancini è un avvocato del foro di Bologna e da diversi anni dedica parte del suo tempo agli immigrati. Ha iniziato quasi per caso. «Uno straniero, ora non ricordo di dove fosse, mi aveva chiesto una mano perché era in difficoltà con il permesso – ricorda l’avvocato –, così con il passaparola sempre più persone hanno cominciato a rivolgersi a me per un aiuto. Ormai qua mi riconoscono tutti». 

Due bambine intanto giocano con la porta di vetro dell’ingresso. La aprono e ridendo ci danno il benvenuto in inglese. La madre le riprende e chiede scusa. Entriamo. L’ufficio è affollato. Gli sportelli sono rappresentati da alcune scrivanie, una accanto all’altra. I poliziotti seduti fianco a fianco ognuno con l’interlocutore di fronte. Nella stanza un forte brusio. Alzano la voce. Chiedono, spiegano, rispondono. Sembrano bruschi e sbrigativi a primo acchito ma «sono poi i primi a dare una mano agli stranieri anche con cose che non sono di loro competenza. Una volta ne ho visto uno aiutare con lo Spid un migrante in difficoltà», dice l’avvocato sorridendo. «È tutto automatizzato ormai, ma non necessariamente questo agevola l’utenza. Anzi è una prima barriera perché gli stranieri dovrebbero essere in grado di compilare tutto da soli. Si trovano invece davanti a delle definizioni che farei fatica a capire persino io che sono un professionista. Sono costretti ad appoggiarsi a qualcuno».

All’uscita le bambine ci notano e ci gridano «Bye bye!» agitando le manine. Subito dopo corrono a nascondersi dietro alla mamma che ci accompagna col sorriso.

 

Nell’immagine il cortile dell’ufficio stranieri di via Paolo Bovi Campeggi. Foto di Khrystyna Yuriyivna Gulyayeva