25 Aprile

Negrini

«Mia madre era una tigre, feroce, ma allo stesso tempo priva di cattiveria». Comincia così, il ricordo di Flavia Valentini sulla mamma Gina, una donna che ha vissuto una vita “travagliata”, contraddistinta da un incontro, che poi si è trasformato nel suo più grande tormento. «Mi sono commossa dopo aver visto il film di Paola Cortellesi “C’è ancora domani”, perché il diritto al voto per mia madre è stato veramente una festa e lo ha esercitato fino all’ultimo, nonostante le difficoltà motorie degli ultimi tempi».

Gina Negrini è anche questa, cresciuta in via Sant'Apollonia, con la madre che la stringe a sé e cerca di non farle mancare nulla. Se da un punto di vista economico la situazione non era delle migliori, tanto da ritrovarsi già a tredici anni a lavorare in fabbrica, dal punto di vista culturale erano “ricchi”. «La famiglia ci teneva moltissimo alla sua formazione. Infatti, approfittando di una libreria ambulante dell’epoca, spesso si ritrovavano a sera se scegliere tra la cena o un libro, con il secondo che veniva spesso preferito». Quindi i primi libri letti, come “I miserabili” di Victor Hugo e altri, che costituirono una prima bozza della sua coscienza sociale. A queste letture però si aggiunge anche un altro episodio che la segnerà nel profondo e la spingerà all’azione. «Durante la guerra alcuni bombardamenti colpirono dei convogli alla stazione, che contenevano tovagliati e scatolette. La notizia si sparse in fretta anche nella fabbrica dove lavorava e presto in molti accorsero per prendere qualcosa da mangiare. Voleva andare anche lei, ma le venne impedito dal nonno. Fu la sua salvezza, perché subito dopo arrivarono in stazione un gruppo di tedeschi, che iniziarono a sparare sui presenti. Tra questi, c’era anche una sua cara amica che lavorava con lei in fabbrica. E quell’enorme ingiustizia fu la molla che la spinse a mettersi in gioco».

Infatti, a diciassette anni entra nella Resistenza e a Bologna diventa staffetta comandante locale del “Corpo Volontari della Libertà”. «La lotta partigiana l’ha accompagnata per tutta la vita e l’ha spinta a inseguire l’ideale in cui credeva». Dopo la guerra, forse a causa di una pleurite, viene ricoverata a Villa Altura, una casa sui colli bolognesi, dove fa l’incontro della sua vita. Lì, conosce Nuri Aliev, ventitreenne, proveniente dall’Azerbaijan. Lui si portava dietro una storia drammatica. Infatti, i soldati russi dell’Armata Rossa dovevano arrivare a Berlino e chi non ce la faceva doveva morire. Nuri alla prima occasione riuscì a scappare e arrivare in Italia, dove ha combattuto al fianco dei partigiani italiani.  Lei s’innamora follemente di Nuri e lo convince ad andare a vivere in Unione Sovietica. «Su questo lui era diffidente, perché sapeva il rischio che avrebbe corso nel far ritorno in patria. Prima andarono a Milano, dove un pope ortodosso li sposa. E nel 1946 cominciano il loro viaggio». Arrivati a San Valentino di Linz (Austria), vennero chiusi in un campo di concentramento sovietico. Gina Negrini aveva conservato gelosamente i documenti che attestavano che entrambi avevano combattuto nella resistenza contro i tedeschi. Ma il comandante del campo non diede alcun valore alla documentazione e la strappò. «A quel punto - ha sempre raccontato mia madre – è saltata sulla scrivania, lo ha preso per il bavero della giacca e gli dice “Nel nostro Paese quelli come te li abbiamo fatti fuori, stai attento che non faccia lo stesso con te”».

Nel campo rimasero alcuni mesi, fino a quando Gina Negrini fu costretta a rimpatriare in Italia, mentre il marito venne portato in prigione e poi trasferito in Russia per essere giudicato per alto tradimento. La signora Negrini della sorte del marito non ne seppe più nulla, «questo desiderio di com’era andata a finire la vicenda l’ha sempre accompagnata». Un anno dopo un uomo si presentò alla frontiera di Tarvisio presentandosi come il marito di Gina Negrini ma venne respinto.

Le risposte a queste domande rimasero sospese per decenni, arrivarono solamente settant’anni dopo. Infatti, grazie al lavoro svolto da uno scrittore russo e da un programma simile a chi l’ha visto, si fece viva la figlia di Nuri, che inviò le foto del padre e di Gina. «Era il maggio del 2014, la mamma non era proprio lucidissima. Quando le furono mostrate le foto che dimostravano il fatto che era ancora vivo, lo riconobbe immediatamente. L’unico dubbio della sua vita venne quindi sciolto. L’aver saputo che non era morto è stato per lei una grande liberazione».

 

 

 

Foto concessa dall'intervistata