Quindici
Una spranga. I colpi sul cranio ripetuti. L’intenzione precisa di voler porre fine alla vita di chi, in quel momento, cercava di aiutarlo. Un gesto premeditato quello di Gianluca Paul Seung, il trentacinquenne che il 21 aprile dello scorso anno ha aggredito nel parcheggio dell’ospedale Santa Chiara di Pisa, Barbara Capovani, responsabile del Servizio psichiatrico di diagnosi e cura (Spdc), morta pochi giorni dopo a causa delle ferite riportate. Seung, che in passato aveva già sfregiato il volto di uno psichiatra in Versilia e molestato sessualmente una minorenne, negli anni è stato sottoposto a diversi Tso (trattamenti sanitari obbligatori) e ricoveri coatti. Lo scorso agosto il cinquantasettenne Renato Valboa è scappato dalla comunità tutelare Villa San Francesco di Cancello ad Arnone (in provincia di Caserta) in cui si trovava in libertà vigilata, ed è finito all’ospedale Galliera di Genova dove ha minacciato un medico. Era stato condannato nel 2009 per l’omicidio della compagna Florinda De Martino a colpi di accetta. Il 16 febbraio un paziente psichiatrico dell’ospedale di Baggiovara a Modena ha seminato il panico e devastato l’intero reparto, minacciando medici e infermieri presenti e causando danni per oltre centomila euro. Tre episodi questi, tra i tanti che la cronaca propone, che riaccendono i riflettori sulla Legge Basaglia e sul dibattito fra chi pensa che vada riformata perché troppo lassista e chi, come i medici, ritiene che si sia arenata per mancanza di risorse. A cent’anni dalla nascita di Franco Basaglia – propugnatore di questa riforma che ha portato alla chiusura dei manicomi e alla rimodulazione dei sistemi di cura per il disagio mentale con l’approvazione della legge 180, entrata in vigore il 13 maggio 1978 – quello che emerge è che dopo uno slancio iniziale si è assistito a un progressivo impoverimento del servizio pubblico che ha sostituito di fatto gli ospedali psichiatrici, con centri molto spesso a corto di personale e risorse, a fronte di una richiesta di assistenza sempre maggiore. A 46 anni da quell’evento storico che ha creato uno iato fra due epoche differenti come sta la psichiatria italiana? La Legge Basaglia va effettivamente rivista come sostengono diversi esponenti politici o va aumentata la disponibilità economica e la voce d’investimento necessaria a portarla al pieno compimento? Per capire di cosa stiamo parlando dobbiamo fare un passo indietro. Quando la legge 180 fu approvata in Italia c’erano 98 ospedali psichiatrici in cui erano ospitate all’incirca 90mila persone. La notizia della loro chiusura però non fu accolta positivamente da tutta la popolazione. A fare da contraltare a medici e psichiatri felici di poter mettere una pietra tombale su quell’istituzione carceraria e repressiva, oltre che un vero e proprio retaggio fascista, c’erano le famiglie dei pazienti: sgomente al pensiero di doversi nuovamente fare carico del ‘malato’. Il manicomio non era nato per prevenire e curare, ma per contenere e nascondere dalla vista della società i cosiddetti ‘alienati’ o ‘devianti’, tacciati di creare “pubblico scandalo”, come riporta l’articolo uno della legge Giolitti, la 36 del 1904, che regolamentò l’istituzione del manicomio come luogo di custodia e cura. Molto spesso, però, quelle che finivano nei manicomi erano persone che non avevano mai manifestato segni di squilibrio o di alterazione, sulle quali ricadeva la scure del ricovero forzato per volontà della famiglia. Sotto il cappello a tese larghissime della devianza, quindi, rientravano donne definite inadeguate al ruolo di mogli, madri, figlie e sorelle da mariti, padri o fratelli e per questo rinchiuse perché accusate di ninfomania, adulterio, libertinaggio, euforia, isteria, irrequietezza, ribellione, povertà, malinconia. Sottrarsi al volere del marito, risultare troppo loquaci e poco deferenti nei confronti di un familiare è costato l’internamento a tantissime donne. Sorte che è toccata anche a molti omosessuali, spesso giovani, come testimoniato nel film Il signore delle formiche di Gianni Amelio, che racconta la storia di Ettore Tagliaferro (nella realtà Giovanni Sanfratello) un ragazzo di diciannove anni - ancora minorenne nel 1959, visto che l’abbassamento della soglia per la maggiore età da 21 a 18 è del 1975 - che incontra lo scrittore e mirmecologo (entomologo che studia le formiche) Aldo Braibanti. Tra i due nasce una storia d’amore, invisa alla famiglia del ragazzo che presenta alla Procura della Repubblica un esposto in cui accusa Braibanti di pederastia e plagio. Scoppia un caso nazionale: lo scrittore riceve una condanna a nove anni di reclusione poi diventati due, mentre Sanfratello viene sottoposto dalla famiglia a un ricovero coatto in un manicomio di Verona in cui subisce circa quaranta elettroshock e diversi cicli di insulinoterapia per guarire dalla sua omosessualità. Pratiche, queste, che trasformavano le persone in zombie, alienandole del tutto. «Era una roba aberrante» ricorda Giovanni De Plato psichiatra ed ex direttore del Dipartimento di Salute. mentale dell’Ausl di Bologna Nord, che ha lavorato per anni all’ex manicomio Roncati di via Sant’Isaia 90 ed è stato collaboratore di Basaglia. «L’elettroshock era uno strumento puramente sintomatico, non curativo. Dopo poco tempo la sintomatologia per cui veniva utilizzato si ripresentava e ogni volta bisognava aumentare il numero di applicazioni. Era un palliativo, uno strumento di violenza privo di efficacia che provocava una catena di effetti collaterali severi, soprattutto a livello della circolazione cerebrale. Lo era anche l’insulinoterapia che spesso veniva usata in combinato con l’elettroshock con risultati devastanti sulle persone. Questo trattamento causava un coma insulinico, per cui il paziente si addormentava profondamente e per risvegliarlo era necessario somministrargli un pappone di zucchero. Questo causava problemi di obesità. Oltre allo scombussolamento della mente, per chi subiva questo tipo di trattamenti, dunque, c’era anche quello fisico. Queste pratiche, insieme agli strumenti di contenzione come le cinghie e le camicie di forza, erano l’ordinarietà in un sistema che si reggeva sulla sospensione delle regole sociali e della dignità umana e si basava sul patto tacito fra chi lavorava all’interno dei manicomi e le famiglie dei pazienti, che il più delle volte preferivano voltare la faccia e continuare vivere nelle loro torri d’avorio. C’era una vera e propria linea di demarcazione, un limes, che separava il mondo di fuori da quello all’interno dell’ospedale psichiatrico e molti avevano paura di fare un passo e superarlo, come racconta Viola Ardone in Grande Meraviglia, il romanzo che racconta la storia di Elba, una bambina cresciuta in manicomio: «I mica-matti odiano i matti, li chiudono nel mezzomondo (il manicomio, ndr) e qui non ci vogliono mettere piede, neanche nei giorni di visita perché, sotto sotto, hanno paura che non li facciano uscire mai più». Adesso che tutto questo è stato superato - anche se è ancora oggi in una clinica, la casa di cura Villa Santa Chiara di Verona, è possibile sottoporsi alla Tec, la terapia elettroconvulsionante, per gravi casi di depressione cronica o disturbi psicotici farmacoresistenti – è rimasto qualcosa, una specie di cicatrice: lo stigma della malattia mentale. «Fino al 1978 il ricovero avveniva soltanto in maniera obbligatoria – prosegue De Plato – dopo una sen- tenza emessa dalla magistratura che veniva eseguita dalla Polizia. Questo comportava per il malato di mente anche l’iscrizione al casellario giudiziario. Era come un marchio, per cui era difficile, anche quando raramente una persona veniva dimessa dall’ospedale psichiatrico, che potesse essere reinserita a livello sociale. Vigeva la cultura del pregiudizio. A Bologna fino agli anni Ottanta se lavoravi o passavi in via Sant’Isaia 90 ti consideravano matto. Nel detto popolare era “ah tu abiti in via Sant’Isaia 90, sei un matto». Anche se lo stigma del disagio mentale è rimasto, il sistema manicomiale è stato soppiantato dalla nascita di un trattamento basato sull’evidenza scientifica, sulla validazione della sofferenza e sull’importanza di coniugare diverse discipline. «La riforma ha introdotto nuovi modelli scientifici, istituzionali, ma anche sociali e culturali – spiega De Plato – Ha operato una rivoluzione scientifica, sposando un modello non esclusivamente curativo ospedaliero com’era prima, ma un modello preventivo-riabilitativo, riconoscendo una multidisciplinarietà che sta alla base dell’organizzazione dipartimentale e del lavoro di équipe e non più del singolo professionista». In concreto: dalla chiusura dei manicomi si è arrivati alla creazione di quelli che sono conosciuti oggi come Dipartimenti di salute mentale (Dsm): quell’insieme di strutture e servizi che provvedono alle richieste di assistenza psichiatrica nell’ambito delle Aziende sanitarie locali. Tra i vari servizi che fanno capo al Dsm ci sono i Centri di salute mentale per l’assistenza diurna, i centri diurni aperti per almeno otto ore al giorno per sei giorni alla settimana, i centri diurni classificati come servizi semiresidenziali, le Strutture residenziali in cui ai pazienti viene offerto un programma terapeutico-riabilitativo con non più di venti posti letto, differenziate a seconda della durata dell’assistenza offerta che può essere di dodici o ventiquattro ore. Ci sono i Servizi psichiatrici di diagnosi e cura (Spdc), creati all’interno dell’ospedale ordinario, che svolgono trattamenti psichiatrici volontari e obbligatori se risulta necessario il ricovero e infine il Day Hospital psichiatrico, che può trovarsi o all’interno dell’ospedale o in strutture esterne sempre collegate col centro di salute mentale di riferimento, in cui vengono offerte presta- zioni diagnostiche e terapeutico-riabilitative. Si tratta, quindi, di servizi territoriali e di comunità, che vanno dall’assistenza a domicilio alla persona con sofferenza mentale fino all’attività ambulatoriale. Questo modello innovativo, però, si ritrova a scontrarsi con una realtà difficile in cui a prevalere è l’inerzia degli investimenti e il disinteresse per la salute men- tale. «Negli ultimi vent’anni c’è stata una riduzione di personale e risorse – sostiene lo psichiatra Giancarlo Boncompagni – siamo partiti che dovevamo avere per legge il 6% del budget generale dell’Asl . Io ho iniziato a lavorare al Sant’Orsola che c’erano dodici medici, quando sono andato via eravamo in sei. Dal 1999 al 2016 mi sono ritrovato a gestire 2100 ricoveri l’anno. In quest’arco di tempo, però, i Tso sono stati solo trecento. In Italia l’applicazione degli standard minimi indicati dal decreto ministeriale 77 del 2022 – come descritto in un report di Quotidiano sanità – dovrebbe portare la percentuale della spesa complessiva per la Salute mentale dal 3 al 3,6 del Fondo sanitario nazionale, ancora lontana dal 5,4% della Danimarca e dal 4,8% della Germania. Gli standard minimi di personale per l’area territoriale, invece, definiti dall’intesa fra Stato e Regioni del 21 dicembre dello scorso anno, devono corrispondere a 6,7 operatori per 10mila abitanti per un totale di 33.423 operatori, tra medici, psicologi, infermieri e personale amministrativo. I dati registrati dal Ministero però parlano di una dotazione complessiva del personale pari a 29.785 figure professionali. Emerge, quindi, una mancanza di 3.638 operatori. In generale, in Italia mancano 13.198 operatori: circa 11mila operatori sanitari, 1.465 medici e 589 psicologi. Guardando all’Emilia-Romagna – come recita il rapporto salute mentale 2022 del Ministero - dal 2016 al 2021 i medici dei dipartimenti di salute mentale sono diminuiti del 17%, passando da 566 a 468. La spesa regionale per la salute mentale si attesta sul 3,5% del Fondo sanitario nazionale. «Un altro dato problematico che risalta – spiega Michele Sanza, direttore del Dsm di Forlì-Cesena – è quello che riguarda l’impiego del 40% delle risorse in strutture residenziali alle quali accedono molto spesso persone che hanno bisogno di assistenza sociale o di un tetto sulla testa». Attualmente, come riferisce Fabio Lucchi, direttore del dipartimento di salute mentale di Bologna, sono 16.580 i pazienti in carico ai centri di salute mentale dell’Emilia-Romagna, di cui 3.930 nuovi casi nel 2023. 3.877 sono, invece, i pazienti attualmente in carico ai Serdp, di cui 725 nuovi casi nel 2023. Un numero spropositato di persone, destinato ad aumentare, a cui devono prestare assistenza novanta medici. Uno scenario, questo, comune a tante regioni d’Italia, come testimoniato da Marino Trisolini, psichiatra del Servizio tossicodipendenze di Putignano (Bari): «Io sono l’unico medico per tre SerT, per un territorio di circa 100mila abitanti. Se vado in malattia o in ferie non c’è chi mi sostituisce. Se dovessi assentarmi verrebbero bloccati i controlli e le nuove terapie, si procederebbe con la routine quotidiana che prevede la distribuzione dei farmaci alle persone in cura. Nel centro in cui opero io, quello di Putignano, ci sono circa 250 pazienti, la maggior parte dei quali è qui per problemi legati all’eroina». Per rispondere alla crescente richiesta di salute mentale il Governo dovrà rispondere ritoccando all’insù la quota dell’investimento per la salute mentale. Secondo la Società italiana di psichiatria sono necessari - oltre ai quattro miliardi di euro attualmente dedicati - altri due miliardi per raggiungere l’obiettivo del 5% del fondo sanitario nazionale. Una sfida, questa, da raggiungere in pochi anni per portare a termine una rivoluzione che, al momento, appare incompiuta.
Pazienti psichiatrici dell’ospedale psichiatrico Materdomini (Salerno). Foto Ansa
L'articolo è stato già pubblicato sul Quindici n. 19 del 27 marzo.