Alluvione

L'Emilia-Romagna è piena. Nel senso che da ovunque la si guardi ogni suo centimetro di suolo libero è conteso e brulica di vita. Un modello di sviluppo ad alta intensità che la vede primeggiare in tanti settori produttivi ma che, al contempo, dimostra la sua estrema fragilità quando un tassello qualsiasi o una variabile imprevista scombina l'ecosistema. Per l'Emilia-Romagna questo "sconvolgimento" è l'alluvione dello scorso maggio e segue i tempi macchinosi della burocrazia "all'italiana". Prima il tango tra Governo e Regione per la scelta del commissario, il fango, la piattaforma "Sfinge" e la questione beni mobili: degni di risarcimento o no? A rilanciare la palla è la segretaria regionale di Ugl Emilia-Romagna, Tullia Bevilacqua, intervenuta lo scorso venerdì nel corso dei lavori del Patto per il Lavoro e per il Clima. Non è solo questione di riavere indietro denaro, il fatto è che «costano più le perizie che il risarcimento che se ne ricaverebbe». Questo il sentito comune della cittadinanza ma anche di Giuseppe Cazzani, agricoltore 68enne, della provincia di Bologna. 

Quel che resta alla Regione a un anno dall'alluvione è un pugno di cemento e fango. «Là dove c'era l'erba ora c'è una città», cantava nel 1966 il nostalgico "ragazzo della via Gluck", Adriano Celentano. Secondo il rapporto di Ispra del 2022Bologna è la città emiliana che nel 2021 ha registrato il maggiore consumo di suolo, 32.981 ettari. Da qui la richiesta di Bevilaqua alle parti competenti del Patto «di non consentire più - nei futuri Piani - la costruzione o la cementificazione nelle zone alluvionate, secondo un sacrosanto principio di precauzione». Nel frattempo, martedì 26 marzo l'assessore regionale al Bilancio, Paolo Calvano, ha annunciato la destinazione degli ultimi 15milioni di provenienti dalle donazioni: «Lobiettivo delle scelte fatte è quello di essere vicini a cittadini e imprese dei territori alluvionati, in modo complementare a quanto è chiamata a fare la struttura commissariale». 

Chi sono i volti del post-alluvione? InCronaca ha ascoltato la storia di Giuseppe Cazzani, agricoltore, che racconta che sotto la pioggia incessante di quei giorni di maggio sono finiti sott'acqua il 75-80% dei terreni coltivati nel bolognese. Il danno più grande? «Quello futuro. Non quantificabili, alcuni terreni non potranno più essere utilizzati per anni».

 

Nell'immagine il fiume Idice dopo l'alluvione.Foto: Ansa

Nell'immagine il fiume Idice durante l'alluvione. Foto: Ansa

 

E gli aiuti del Governo non bastano. I danni immediati sono ingenti e devastanti: «Tra affitto dei terreni, che non sono tutti nostri, ma anche su quelli che lo sono è come se pagassimo un affitto, i soldi alle banche glieli dobbiamo dare». Mille euro a ettaro più le spese di produzione per un totale di circa tremila euro persi a ettaro. Dal generale Figliuolo, quello che alla fine è stato scelto come commissario, «abbiamo avuto un ristoro di 470 euro a ettaro circa - arrotondando - nella campagna 2023 siamo su una perdita secca di 2.500 euro l'ettaro». 

Oltre ai danni diretti, quelli immediati, ci saranno ripercussioni che peseranno sulle spalle degli agricoltori per anni. «I terreni sono stati lavati e compressi da quell'enorme quantità di acqua. La terra è viva. Il terreno fertile - racconta con amarezza Giuseppe - ha perso la sua integrità dal punto di vista organico». E poi, specifica l'agricoltore, c'è stato anche un altro fenomeno molto importante, ovvero il danno alla morfologia del terreno. Già, perché in molti di questi sono arrivati «residui inerti della piena, cioè quando i fiumi sono straripati, gli argini si sono rotti. Argini fatti di sabbia, limo e argilla, costruiti ormai tanto tempo fa e i cui detriti si sono depositati sui campi, modificando la morfologia dei terreni stessi». Lì dove c'è stata la rottura degli argini del fiume Idice, a Vedrana di Budrio, località Motta, Giuseppe ha 40 ettari di terra in cui non ha potuto seminare nulla quest'anno e, con tutta probabilità, non potrà farlo per ancora diversi anni. A non funzionare, secondo l'agricoltore, la gestione e manutenzione delle cosiddette acque alte, ovvero quei canali che portano le acque che vengono dalla montagna verso il mare. «Non una manutenzione in cinquant'anni, erano pieni di alberi ad alto fusto e animali come istrici e nutrie», che nel tempo ne hanno fatto la loro casa, scavandola nella terra e indebolendo di conseguenza i canali. 

E di quei terreni, sepolti sotto due metri di sabbia, «spero che un giorno possano goderne i miei figli, che lavorano con me e sono il mio futuro». 

 

Nell'immagine Giuseppe Cazzani, agricoltore. Foto concessa dall'intervistato