Lavoro

«È una notizia che ci ha spalancato il cuore», commenta Angela Piva - macchinista de "La Perla manufacturing", lo storico brand bolognese di lingerie di lusso, dopo l'approvazione del decreto del ministero del Lavoro che sblocca la cassa integrazione straordinaria. 

 

Quanto è importante l'approvazione del decreto? 

«Siamo senza stipendio da ottobre. Avere un minimo di retribuzione ci consente di rimanere collegati all’azienda. Diverse colleghe si sono licenziate per accedere alla Naspi pur di avere un minimo di salario. Ognuna di noi può avere mutui o impegni diversi e essersi ritrovati, di punto in bianco, senza entrate per noi è stato molto pesante. Abbiamo accolto questo decreto con gioia, è una situazione che abbiamo attenzionato da tanto tempo a tutti i livelli possibili».

 

Siete state anche a Bruxelles. 

«Noi cerchiamo di tenere alta l’attenzione sulla nostra situazione già da un anno a questa parte, arrivando fino alla sede del Parlamento europeo. Poteva non essere l’ultima tappa in questo momento».

 

Il decreto però riguarda solo una parte delle lavoratrici. 

«Abbiamo avuto una prima risposta a livello economico, anche se non sappiamo di preciso quando arriverà la prima indennità. All’Inps attendevano il via libera del decreto per far partire le retribuzioni della cassa integrazione. Aspettiamo nel breve periodo una risposta che riguardi anche "La Perla Management" (circa sessanta lavoratrici, ndr). Spero che nel giro di pochissimo il decreto venga esteso anche per loro».

 

Qual è l'entità dell’assegno mensile?

«Di preciso non lo so. Dovrebbe essere l’80% di quello che l’Inps riconosce, non l’80% dello stipendio reale. Comunque non dovrebbe arrivare a mille euro».

 

Quanto percepiva, invece, di stipendio?

«L’ultimo stipendio intero, parliamo di oltre un anno e mezzo fa, superava di poco i 1.400 euro. Riceverne uno che non arriva a mille euro non è il massimo, ma ci dà un minimo di respiro».

 

Quindi da un anno e mezzo percepite uno stipendio ridotto?

«Leggermente minore, perché abbiamo iniziato a fare solidarietà per cui avevamo giornate retribuite già allora all’80%. Nei primi mesi si è trattato di una differenza minima, perché restavamo a casa un giorno alla settimana. Quindi, quattro giorni al mese pagati all’80%, il resto per intero. La situazione si è fatta pesante nei mesi in cui abbiamo lavorato soltanto tre giorni alla settimana».

 

Questo come ha influito sulle sue abitudini?

«Si sta molto di più a casa, si guarda un po’ di più dove si mettono i soldi. Ho la fortuna di non essere alla canna del gas. A fine mese ci arrivo andando a intaccare, però, un capitale che è stato risparmiato da altri. Io ho una famiglia. Mio marito è in pensione e al momento ci stiamo arrangiando con dei risparmi dei suoi genitori. Però anche la sua pensione non raggiunge i mille euro. Abbiamo due figli, uno vive da solo e l’altra sta finendo un percorso di studi, per cui ci sobbarchiamo anche le spese universitarie. Siamo in tante in questa situazione».

 

E sugli acquisti?

«Abbiamo cercato di mantenere la spesa negli stessi punti: Esselunga e Famila, ma tanti colleghi, però, vanno ai discount. Questo non è sintomatico, perché magari c’è chi li ha sempre scelti per comodità e abitudine. Se posso in questo periodo evito di comprare un paio di scarpe e vado meno dalla parrucchiera. Sono piccole cose che nel tempo portano a risparmiare».

 

Qual è la sua speranza?

«Di tornare presto a lavorare. Siamo donne resistenti e resilienti, ci sappiamo inventare. Anche se adesso siamo a casa, un gruppo di noi ha iniziato a produrre oggetti e magliette che ci servono per rimpolpare le nostre casse e il nostro fondo cassa di resistenza, che usiamo per fare fronte alle esigenze di chi ha più bisogno e portare avanti le nostre vertenze. È un modo di rimanere in contatto fra di noi e per avere qualcosa di utile da fare. Noi siamo lì dentro da una vita, io sono lì da 33 anni, è stato il mio primo lavoro in assoluto. Vado lì volentieri, perché mi piace quello che faccio e mi piace l’ambiente».

 

Cos'è questo fondo di resistenza?

«Il nostro fondo cassa personale. Stiamo cercando di rimpolparlo per affrontare le esigenze particolari di colleghe fra colleghe, per cui ci siamo inventate dei gadget come magliette con il pizzo attaccato. Il nostro logo è “Uniche e unite. Noi le Perle del made in Italy”, siamo noi che ci stiamo sbattendo affinché questa realtà continui a essere presente nel panorama mondiale. Produciamo magliette e shopper con questo logo. Il nostro simbolo è composto da bamboline unite per mano che, nell’incavo fra il braccio e la gonna si forma un cuore, perché noi siamo amiche, siamo unite e siamo una famiglia. Quando lavoriamo stiamo insieme dieci ore al giorno, passiamo più tempo in azienda che a casa. Tutti questi prodotti li vendiamo con i nostri banchetti nelle piazze, come per l’8 marzo».

 

In questo tempo l’azienda è cambiata tanto?

«Negli anni l’ambiente è diventato più pesante. Già da quindici anni a questa parte, forse anche da prima, sono iniziati a emergere i problemi; specialmente da quando il dottor Masotti è andato via. Noi amiamo il nostro lavoro e abbiamo voglia di insegnarlo alle nuove leve. Non ci possiamo nascondere: in un’azienda dove l’età media è fra i 46 e i 56 anni, per portare avanti il lavoro bisogna intervenire facendo entrare persone giovani che hanno voglia di imparare questo lavoro. Questo è un lavoro che si impara con tanti anni di esperienza, perché cambiano i tessuti, le macchine».

 

Il rischio quindi è che finisca nell’oblio.

«La Perla è conosciuta in tutto il mondo. È chiaro che le persone più giovani cominciano a far fatica a sapere cos’è questo marchio, perché non facendo più pubblicità da anni e avendo risonanza soltanto sulla cronaca dei giornali è complicato. Ormai guardano la situazione al negativo, conoscono un’azienda con grossi problemi e sull’orlo della chiusura, dove c'è uno stabilimento che non produce e ci sono tanti capi fermi che, se avessimo l’opportunità di vendere, forse riuscirebbero a ripianare la situazione di tutti».

 

Come pensa che finirà?

«Mi auguro che la produzione riparta il prima possibile. Non vediamo ancora la luce in fondo al tunnel. Con una battuta: siamo ancora al traforo del Monte Bianco, forse a metà. Due mesi fa eravamo solo all’inizio della galleria».

 

Immagine d'apertura, foto Ansa. All'interno Angela Piva, foto concessa dall'intervistata