quindici

Gli occhi pieni di speranze e lo stomaco vuoto. Un ragazzino come tanti. Partito da Sfax, in Tunisia. Noi lo chiameremo Tarek e da lui ci faremo guidare in quel girone dove spesso finiscono i minori migranti che dalle coste del Nordafrica arrivano a Bologna. Da lui che è riuscito a uscirne anche se non indenne. Aveva quindici anni quando è partito. Con tremila dinari, circa mille euro, è riuscito a pagarsi la traversata arrivando a Lampedusa. «A ripensarci vengono i brividi. Noi siamo stati davvero fortunati – riflette Tarek – Molti altri non ce l’hanno fatta. Sono annegati tentando di arrivare in Italia, in Europa». Dopo una breve permanenza a Lampedusa, assieme ad altri ragazzi, è stato trasferito a Palermo. E qui Tarek ha deciso di scappare. «Sentivamo parlare quelli più grandi che progettavano la fuga. Presi dal panico abbiamo deciso di seguirli – confida – Con vari treni siamo arrivati fino a Roma».

Affidandosi ai consigli di alcuni compaesani hanno deciso di ripartire. «Ci avevano detto che a Bologna avremmo trovato un appoggio, un aiuto – ricorda – Così sono finito ad abitare in un fabbricato abbandonato di via Stalingrado». Si trattava dell’enorme complesso della ex “Nuova Manifattura Tabacchi”. «Era quasi un condominio. C’era gente che arrivava da tutte le parti del mondo, c’erano anche diverse ragazze – racconta – Abitavamo tutti là. Ci aiutavamo a vicenda».

C’era riuscito. Era sopravvissuto. Era in Italia, nell’ambita Europa, finalmente. Aveva trovato dei compagni e un posto dove ripararsi, ma la strada era tutta in salita. Aveva attraversato due inferni, il primo è stato il viaggio, il secondo il mondo che ha trovato al suo arrivo. Ci è passato in mezzo, è stato segnato nel profondo ma in qualche modo ne è uscito. Ora vuole raccontarlo per mettere in guardia quelli partiti come lui, dopo di lui. Arrivato a Bologna Tarek doveva mangiare, lavarsi e vestirsi. Gli servivano i soldi. Più di tutto però gli mancava una cosa che si rivelerà fondamentale. Quella cosa che tutti gli adolescenti abborrono ma soltanto finché non ne restano privi. L’amore incondizionato e il senso di appartenenza racchiuso in qualcuno a cui di te importi veramente. Qualcuno su cui avere il diritto di sfogare la propria rabbia se le cose non vanno. La persona che, qualunque cosa accada, ti starà accanto e tirerà sempre fuori da guai. Un punto di riferimento, di solito rappresentato da un genitore o un parente. È tipico degli adolescenti soffrire della superbia di sentirsi invincibili. «Ero un coglione allora. Ti promettevano montagne d’oro e le porte del Paradiso – spiega – Ci ho creduto. Pensavo di aver trovato il modo per sistemarmi».

Così Tarek senza rendersene conto era diventato facile preda per quanti gli promettevano rapidi guadagni. Dapprima piccole commissioni, a seguire compiti con sempre più responsabilità. Era stato arruolato come era successo a tanti. Sfruttare i minorenni per spacciare la droga è molto conveniente e altrettanto facile. «Ti fanno fare il lavoro sporco mentre loro se ne restano in disparte – racconta – E tu lo capisci solo quando arrivano le conseguenze». Tarek aveva cominciato a spacciare. Tutti i giorni, per tutto il giorno, girava per il centro di Bologna facendo la cresta sulla merce che vendeva In mezzo alla movida della zona universitaria, nella prima periferia, sempre in strada cercando di non farsi notare dagli “sbirri”. Uno di quei giorni è stato fermato. «Mi hanno chiesto i documenti – racconta – Non li avevo e così mi hanno portato in comunità».

Qui Tarek si è dovuto scontrare con qualcosa a cui non era più abituato: regole. Doveva adattarsi a ciò che gli veniva richiesto. Doveva rispettare il coprifuoco e gli orari dei pasti. «Una sera sono arrivato in ritardo, non era la prima volta – ricorda – Per punizione mi hanno lasciato fuori». In questa comunità, come del resto nelle altre dove è passato nel tempo, Tarek non è rimasto molto. «Ci davano cinque euro a settimana di paghetta e tre sigarette “Diana” al giorno. Lo facevano per tenerci buoni, per darci un contentino. Fuori però potevo guadagnare di più e non dovevo rendere conto a nessuno. E soprattutto sentirmi dire che ero un buono a nulla». In quanto immigrati nordafricani capita di essere immediatamente identificati come spacciatori. I ragazzi che subiscono questo pregiudizio spesso intraprendono comportamenti che ne legittimano l’esistenza. In psicologia sociale questo fenomeno viene definito effetto Pigmalione, noto anche come “profezia che si autorealizza”. Succede quando si interiorizza un giudizio e si finisce per comportarsi di conseguenza. In questo modo il soggetto entra in un circolo vizioso che nel tempo lo porterà a diventare esattamente come lo avevano giudicato. L’effetto può manifestarsi anche in altri contesti come quello lavorativo o famigliare. È quindi facile che accada anche nelle comunità: poche risorse per tanti giovani adolescenti, senza soldi, senza affetti, in una realtà che non conoscono e completamente abbandonati a se stessi. Anche gli educatori non sono tanti e non sempre sono in grado di farsi carico di queste situazioni.

Così Tarek come un novello Rosso Malpelo è finito in questo circolo vizioso. «Sempre la stessa storia: mi fermavano ed essendo minorenne e senza documenti finivo in comunità. E io scappavo – racconta – Sono andato avanti così finché non mi hanno trovato addosso la droga. Sono finito al “Pratello”, al penitenziario minorile». A questo punto tutti i nodi erano venuti al pettine e Tarek non aveva più scelta. Il giudice che si era occupato del suo caso gli aveva dato la possibilità della sospensione del processo con messa alla prova per estinguere il reato. Doveva dimostrare di volere rigare dritto. «Così sono finito nella mia ultima comunità – spiega – Mi aspettavo lo stesso scenario che avevo già incontrato e invece mi sono dovuto ricredere. Gli educatori ci tenevano. Si impegnavano tanto per noi. Mi sono sempre sentito spronato, sostenuto. Ho trascorso due anni lì, riuscendo a prendere una qualifica professionale e ho potuto cominciare a lavorare». A Tarek era stato finalmente restituito un po’ di quel calore che solo le persone care possono donare.

«Ancora ora, dopo tanto tempo, mi capita di essere fermato per strada dalle forze dell’ordine. Ai loro occhi io resterò sempre un delinquente, uno straniero sospetto. Le scelte che ho fatto hanno pregiudicato il mio futuro, però queste scelte le ho fatte con la testa di un ragazzino irresponsabile e incosciente. E ce ne sono tanti come me, appena arrivati, spaesati e abbandonati a se stessi. E proprio ora stanno prendendo la mia stessa strada perché non si rendono conto dei rischi che corrono. Sono soli e hanno bisogno di tutto, ma sono anche troppo giovani. Pensano solo a come riuscire a comprarsi le Nike, le felpe firmate, andare a mangiare un panino da McDonald’s. Rischiano il loro futuro per pochi spiccioli, per delle cose senza valore. Sono affamati di stabilità, di benessere. Molti di loro si sono lasciati alle spalle situazioni difficili». In gran parte, se non tutti, sono tunisini come Tarek.

Mohammed è uno di questi. Viene da una famiglia di 12 figli. È arrivato in Italia a 18 anni. Ora ne ha 27 e anche senza un permesso di soggiorno è riuscito a trovarsi un lavoro onesto. Non ha la possibilità di essere assunto regolarmente, ma il suo datore di lavoro cerca di aiutarlo come può. Gli ha trovato un alloggio per evitargli la strada. Mohammed aveva rischiato la vita in mare. Lo disturba molto doverlo ricordare, spiega: «Avevamo finito la benzina in mezzo al mare. Eravamo una trentina di persone su quel barcone. Ce la siamo vista brutta, ma poi con i rimasugli delle varie taniche ce l’abbiamo fatta ad arrivare sulla costa. Nemmeno so dove abbiamo approdato. Sicuramente in Sicilia». Anche a Mohammed, nei primi tempi, è toccato fare i conti con la strada. «Sono scappato insieme ad altri dal centro di accoglienza perché ci hanno raccontato che restando lì saremmo stati rimpatriati. Ci avrebbero schedati e rimandati indietro. Avevamo paura di aver rischiato la vita inutilmente». Così ha cercato di sopravvivere come poteva, ma si è reso conto che lo spaccio non era la strada giusta. «L’ho dovuto fare all’inizio per mangiare, ma appena ho potuto ho cambiato vita».

Mohammed non manca mai di allungare dei soldi ai ragazzi in difficoltà. «A me è stato fatto del bene, io sono stato fortunato e ora voglio aiutare. Se posso do sempre dei soldi perché non arrivino a spacciare o a rubare. Spero possano passarsela meglio di me anche grazie alle comunità». Mentre camminiamo per il centro di Bologna Tarek indica due ragazzi che stanno attraversando la strada. Racconta che uno dei due, Moemen, lo ha conosciuto di recente. «Questo l’ho trovato una sera a dormire sotto al portico di San Vitale. Aveva sette felpe addosso. Mi sono avvicinato e gli ho offerto un po’ di soldi per mangiare. Se continua così presto finirà a rubare o a spacciare».

Moemen ha 16 anni, anche se a guardarlo non ne dimostra più di 13, è arrivato da poco più di un mese e non parla italiano. Partito da Mahdia, in Tunisia, dopo una breve permanenza a Lampedusa è stato trasferito a Salerno in una comunità dove è rimasto coinvolto in una rissa. «Ho finito per litigare perché gli altri ragazzi mi bullizzavano – spiega – Essendo l’ultimo arrivato dovevo accettare tutto e stare zitto. Dopo che ci hanno diviso, gli educatori mi hanno detto che se qualcosa non mi andava bene potevo anche andare affanculo e mi hanno indicato la porta». Così se n’è andato. È salito su un treno ed è arrivato a Bologna finendo per dormire sotto i portici. Ha provato ad andare in questura diverse volte senza ottenere alcun aiuto. Tarek gli chiede dove dorme ora e il ragazzo gli spiega che è riuscito a entrare di nascosto in una comunità. Gli assistenti sociali hanno fatto partire una segnalazione e sembra che presto avrà un posto ufficiale in una comunità. Un escamotage che gli è stato suggerito da altri ragazzi, suoi compaesani. Alla domanda su cosa gli piacerebbe fare da grande, risponde: «Mi piacerebbe fare il barbiere e aprire un mio negozio». Non sente i suoi genitori da quando è partito. Con tutta probabilità crede siano arrabbiati perché se n’è andato senza dire nulla.

Insieme a lui c’è Skander di quasi 17 anni, partito da Korba, città della costa tunisina. È in Italia da un mese come Moemen. Si erano conosciuti a Lampedusa e per un colpo di fortuna si sono rincontrati a Bologna. Lui a sua madre ha sempre detto che se ne sarebbe andato, anche se lei era contraria. L’ha sentita e ci spiega che è stata felice di saperlo vivo: «Mi ha perdonato per essere partito. Dice che l’importante è che sono sopravvissuto». Ora sono diversi giorni che non è più in contatto con la famiglia perché in comunità gli hanno rubato il cellulare. Tarek spiega che queste cose succedono in continuazione e che di solito nessuno si mette a indagare o fare giustizia: «Certo, dipende dalla comunità. In alcune parlano con i ragazzi. Cercano di venire a capo delle diatribe, ma sono pochi quelli a cui importa». Cala la sera e cominciano a comparire gruppi sempre più numerosi di ragazzi. Nonostante le temperature ancora rigide quasi tutti sono vestiti con la sola felpa e l’immancabile cappuccio. Tutti muniti di borsello. Staranno fuori tutta la notte cercando di fare un po’ di soldi. Per curiosità ci siamo avvicinati e ci siamo finti interessati a comprare, per sapere cosa vendessero e a quanto. In prevalenza hanno tutti hashish o marijuana. Alcuni hanno anche della cocaina. I prezzi si aggirano, a seconda della qualità, tra i 10 e i 20 euro al grammo per le prime due sostanze. Tra i 50 e i 150 per la polverina. Questi sono gli ultimi, i meno fortunati, abbandonati a se stessi, costretti a vivere di spaccio. Non hanno trovato ancora nessuno capace di dare loro una speranza, un’alternativa. Tarek vorrebbe trovare il modo di indicare anche a loro una strada. Se non per un approdo, almeno per un nuovo inizio.

 

Foto di Khrystyna Gulyayeva

L'articolo è stato pubblicato sul numero 17 del Quindici (29 febbraio 2024)