Quindici

Coscioni

Sono passate poche settimane da quando la Regione Emilia-Romagna ha deciso, prima in Italia, di normare l’accesso al suicidio medicalmente assistito. Il principale obiettivo è il tentativo di uniformare l’accesso a una pratica possibile, ma faticosamente applicabile. Mentre l’associazione Luca Coscioni ha depositato in Regione una proposta di legge di iniziativa popolare sostenuta da un’ingente raccolta firme e ne ha chiesto la discussione in aula, la giunta di centrosinistra guidata da Stefano Bonaccini ha giocato d’anticipo, approvando le nuove linee guida regionali tramite una delibera di giunta che dà indicazioni alle Ausl e fissa i termini dell’iter.

È ancora molto presto per tracciare un bilancio e le richieste hanno tempi tecnici per essere valutate e approvate, ma dalle prime informazioni raccolte la via emiliano-romagnola al fine vita non convince fino in fondo le persone che, per le condizioni di salute in cui si trovano, desiderano terminare la propria esistenza. Il problema sembra essere, nonostante la delibera indichi 42 giorni, la sfiducia sui tempi certi. Facendo un passo indietro si torna necessariamente al 2019, anno in cui la Corte Costituzionale ha emesso la sentenza numero 242 che sollevava dalle responsabilità penali Marco Cappato, avvocato e attivista dell’associazione Coscioni, che accompagnò in Svizzera Fabiano Antonini, dj Fabo, per dargli la possibilità di accedere al suicidio assistito. È proprio partendo da quella sentenza che la Regione ha deciso di uniformare il modo per accedere alla pratica. Prima di questa decisione, in Italia ogni Ausl territoriale doveva gestire autonomamente le richieste di suicidio che giungevano: era possibile ricorrervi, ma con molte difficoltà. Lo dimostra il caso di “Anna”, paziente 55enne che nel novembre 2023 ha avuto accesso al suicidio a Trieste: per arrivare a quel punto ha dovuto depositare ai carabinieri un esposto e, solo dopo che il giudice ha condannato l’azienda sanitaria sulla base della sentenza costituzionale, ha avuto il via libera: si è autosomministrata un farmaco letale ed è morta in casa propria. E’ stata la prima italiana a completare la procedura prevista dalla Consulta. Proprio il provvedimento della Corte Costituzionale è il riferimento della delibera emiliano-romagnola emessa il 12 febbraio e rafforzata il 29. Le principali novità stabilite dalla Regione sono: l’istituzione del Corec, il Comitato regionale per l’etica nella clinica e le commissioni territoriali. Mentre il primo ha come principale compito quello di fornire consulenza etica, le seconde si occupano di seguire il paziente per tutto il percorso, dalla richiesta da presentare in Regione alla autosomministrazione del farmaco. Quest’ultimo elemento è fondamentale, poiché chi sceglie questa strada deve essere in grado di intendere e volere e non può avere un tutore legale che prenda decisioni al suo posto. Questo aspetto è stato comunque particolarmente dibattuto, sia da un punto di vista etico che politico. Nonostante le condizioni per richiedere l’accesso al suicidio siano chiare e ben definite - essere in una condizione di malattia grave e non reversibile, essere in grado di intendere e di volere, subire sofferenze tali da rendere difficile convivere con la malattia - le discussioni infiammano l’arena politica. Da un punto di vista etico sono gli esponenti cattolici ad avere maggiori rimostranze sul tema, ma una risposta a chi vorrebbe criticarlo insistendo sulle cure palliative la fornisce Ludovica De Panfilis, presidente del nuovo Corec. Intervistata da InCronaca De Panfilis ha specificato che le cure palliative e il suicidio assistito sono due strade completamente diverse per affrontare una malattia, che non dovrebbero nemmeno essere comparate: «Le cure palliative non anticipano il momento della morte, ma accompagnano e anzi se fatte bene allungano la vita perché il paziente soffre meno, ma non sono comparabili e non dovrebbero rientrare sul dibattito sul suicidio». Il punto di vista politico è invece estremamente complicato e intreccia alleanze e ideologie diverse anche all’interno degli stessi schieramenti. Come si è visto nella Regione Veneto, dove la proposta di legge depositata dall’associazione Coscioni è stata discussa in consiglio regionale e non è passata per il voto dirimente di una consigliera cattolica del Partito Democratico, Anna Maria Bigon, che, a motivo della votazione, è stata rimossa dal suo ruolo di vicesegretaria dem a Verona. In quella sede la Lega del governatore Luca Zaia, era favorevole, a differenza degli esponenti di Fratelli d’Italia, ma per il Pd, che al suo interno ha anime e culture differenti la situazione è più complicata. Per evitare una discussione altrettanto sanguinosa, la giunta Bonaccini ha deciso dunque per il momento di bypassare il consiglio e di approvare le linee guida tramite delibera: questo ha permesso di evitare spaccature interne al partito, ma ha anche scatenato le polemiche (Forza Italia ha annunciato il ricorso al Tar) non solo di chi è avverso alla pratica ma anche di chi teme di veder sfumare i progressi fatti. È il caso dell’associazione Luca Coscioni, depositaria della legge in Regione. Matteo Mainardi, coordinatore, responsabile della campagna sul fine vita delle campagne sul fine vita per l’associazione, lo specifica subito: «Il problema di una scelta come quella fatta da Bonaccini è che delle linee guida approvate tramite delibera possono essere cancellate con un segno di penna. Basta un cambio di giunta minimo per invalidarle e questo le rende deboli. Per questo motivo noi continuiamo a chiedere la discussione della legge regionale a riguardo, perché per modificarla poi eventualmente occorrerebbe passare nuovamente per il consiglio e ridiscuterla e avrebbe sicuramente maggiore forza come atto». Anche perché le delibere regionali ricalcano la proposta della legge Coscioni in quasi tutto, l’unica differenza tangibile è nei tempi, che secondo le linee regionali sono più lunghi perché prevedono un decorso di circa quaranta giorni dal momento della richiesta alla somministrazione del farmaco. Mainardi specifica che nella proposta di legge regionale i giorni sono ridotti a venti, ma il punto fondamentale è un altro: «Al terzo punto della delibera c’è scritto che, laddove la commissione di valutazione ritenga che siano necessari degli approfondimenti, le tempistiche possono essere sospese, ma non è specificato per quanto tempo. Questo significa che le tempistiche del percorso non sono certe. Per esempio, se al trentesimo giorno la commissione valuta una sospensione, questa può durare anche tre mesi». Al di là della questione non secondaria delle tempistiche però, a Mainardi preoccupa la mancanza di discussione che rende le linee guida deboli anche da un punto di vista giuridico e non solo politico: «Il fatto che siano una sorta di vademecum non vincola le Ausl a ritenerle dirimenti», dice. E questo in effetti è un problema che si riflette sui numeri delle richieste di suicidio giunte finora in Regione. De Panfilis ha specificato che non ne è ancora giunta nessuna in Regione e per Mainardi la spiegazione è molto semplice: «Come associazione Coscioni crediamo che questo mancato arrivo di richieste di accesso al suicidio assistito dipenda dal fatto che i medici delle Ausl al quale arrivano le richieste di suicidio da parte dei pazienti dicano loro che non si può fare. Questo lo diciamo perché noi come associazione abbiamo fornito informazioni sulle procedure di suicidio assistito ad almeno 367 persone in Emilia-Romagna, dato tra l’altro sottostimato perché probabilmente sono di più. A fronte di così tante richieste di informazione e anche comparando la regione con il caso del Veneto, dove le richieste sono state sei da quando abbiamo depositato la proposta di legge, è impossibile che in Emilia-Romagna non vi sia nessuno interessato». Mainardi conclude poi ribadendo l’importanza della discussione in aula: «In Regione Emilia-Romagna la nostra proposta è depositata da sei mesi e non è ancora stata discussa. In Veneto e in Liguria, regioni guidate dal centrodestra, invece sì. Il problema è di tipo politico, Bonaccini non vuole rischiare di spaccare il suo partito prima delle europee» e aggiunge «molti medici palliativisti ci hanno contattati per lamentare questa mancata discussione, fondamentalmente perché appunto, così sono solo delle linee guida che non vincolano le Ausl ad agire». L’impasse, quindi, è politica: e nei giorni scorsi è stata la figlia di Paola, una 89enne malata di Parkinson che un anno fa è stata accompagnata da Bologna in Svizzera per morire, a rivolgere l’ennesimo appello: sul fine vita servono regole e tempi certi.

 

L'articolo è stato pubblicato sul numero 17 di "Quindici", uscito il 29 febbraio 2024.