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La lingua italiana rischia di non sopravvivere. È l’allarme lanciato dall’Accademia della Crusca per voce del suo presidente, il linguista e accademico Paolo D’Achille, in una lettera pubblica rivolta alla ministra dell’Università e della Ricerca, Anna Maria Bernini, e al rettore dell’Università di Bologna, Giovanni Molari. Il confronto divide gli utenti dell'Alma Mater, alcuni studenti dicono che sia imprescindibile internazionalizzarsi, per altri si dovrebbe impostare con corsi in italiano affiancati all'inglese.

La decisione della Crusca di esprimersi in merito alla questione è sorta in seguito alla decisione dell’Alma Mater di sopprimere, a partire dall’anno accademico 2024/2025, il corso di laurea in Economia del turismo, sito nel Campus di Rimini, a favore della sola sua versione in inglese, Economics of tourism and cities, che continuerà a esistere interamente in lingua straniera.

«La progressiva eliminazione dell'italiano dall'insegnamento universitario (come pure dalla ricerca) in vista di un futuro monolinguismo inglese costituisce un grave rischio per la sopravvivenza dell'italiano come lingua di cultura, anzitutto, ma anche come lingua tout court, una volta privata di settori fondamentali come i linguaggi tecnici e settoriali», scrive nella missiva D’Achille, professore ordinario di Linguistica italiana all’Università di Roma Tre.

 

Ecco cosa ne pensano alcuni studenti dell’Ateneo bolognese.

 

  

Ilona Babkina, ventottenne di origine ucraina, si è laureata in East european and eurasian studies. Attualmente scrive da Bologna per "EastJournal" e revisiona testi per il medium ucraino "Chytomo".

 

Qual è stato il suo percorso di studi?

«Dopo una laurea triennale all’Alma Mater in Sviluppo e cooperazione internazionale in lingua italiana, con un Erasmus in Spagna nel mezzo, ho conseguito la laurea specialistica in lingua inglese in Studi sull’est Europa e l’Eurasia, facoltà che ha sede a Forlì».

La scelta di frequentare una magistrale in inglese a Bologna è sempre stata nei suoi piani?

«È una decisione che ho preso fin dall’inizio dei miei studi universitari, volevo trovare un modo per rendermi più “appetibile” sul mondo del lavoro, sia italiano che estero. E il fatto che questa facoltà fosse interamente in inglese, con un gran numero di professori da atenei esteri, si è rivelato un valore aggiunto».

Crede che questo stesso corso avrebbe le stesse potenzialità se si svolgesse in italiano?

«No, non potrebbe essere all’altezza. In primis, perché in Italia non ci sono abbastanza docenti specializzati in queste materie che possano dare luogo a un dibattito radicato; l’area scientifica poi, in generale, deve ancora potenziarsi e crescere. In secondo luogo, a livello accademico attualmente l’inglese è la lingua in cui si comunica, quella che serve, ad esempio, se si vuole intraprendere un dottorato. Infine, è fondamentale avere padronanza di questa lingua per partecipare al dibattito internazionale di qualsiasi ambito».

Un punto di forza e uno di debolezza di studiare in inglese?

«Un corso di laurea in inglese ti permette di imparare la lingua prima di entrare nel mondo del lavoro e, nel contesto di relazioni internazionali, di comunicare in modo universale con chi non conosce la tua lingua madre e di rapportarti potenzialmente con tutto il mondo. Uno di debolezza? L’unico pericolo che si potrebbe correre è quello di “sporcare” la lingua italiana con inglesismi, ma non credo che chi vive in Italia possa correre il rischio di non praticare l’italiano».

 

 

Simone Friggieri, ventiseienne di Reggio Emilia, frequenta la magistrale in Physics, il corso di laurea di Fisica applicata erogato in inglese.

 

Come mai ha scelto di studiare in inglese dopo la triennale?

«L’ho fatto per una sfida personale e perché penso che sia importante conoscerlo per avere a che fare con materie Stem (Science technology engineering and mathematics) e comunicare col resto del mondo. Tuttavia, la mia opinione sul frequentare una magistrale in lingua straniera nel tempo è cambiata».

Cioè?

«I docenti che ho incontrato, pur essendo molto preparati nelle loro materie, non sono di lingua madre inglese, e questo si percepisce dalla loro pronuncia e da alcuni refusi nell’esposizione. Questo aspetto non mi ha arricchito perché non mi ha dato modo di migliorare il mio inglese che, anzi, rispetto agli anni del liceo, è leggermente calato nella capacità di padroneggiare termini che non siano strettamente specialistici».

Secondo lei, come si potrebbe ovviare a questo problema?

«Erogando questi insegnamenti universitari in italiano ma affiancandoli, nel frattempo, a corsi obbligatori di grammatica inglese. In alternativa, incrementando lo studio della lingua inglese durante il liceo».

Studiare in inglese, però, avvantaggia nel trovare un impiego all’estero.

«Certamente. Ma non solo all’estero, anche in Italia. Per le aziende fa ancora una certa differenza leggere in un curriculum che un candidato ha svolto studi in inglese, ti dà un vantaggio. Un’arma in più che io, personalmente, vorrei sfruttare per dare una mano al mio Paese, restando a lavorare qui. Ciò non toglie che i miei studi in un’altra lingua mi agevoleranno per tenermi una porta aperta sull’estero, qualora dovessi cambiare idea e cercare lavoro altrove».

 

 

Gianmaria Dozza, ventottenne bolognese, ha frequentato il corso di European Affairs. Ora lavora a Bruxelles per un’Agenzia dell’Unione Europea.

 

Perché ha deciso di studiare in inglese?

«Ho sempre voluto lavorare per le istituzioni europee e l’inglese è la lingua utilizzata in questo ambito. Ammetto di essere rimasto a Bologna perché poteva offrirmi un corso in lingua e dunque aprirmi alla possibilità di una carriera internazionale. Senza questa magistrale mi sarei trasferito, forse anche fuori dall’Italia».

Quindi ha deciso di andare all’estero prima di cominciare la sua magistrale?

«Esatto, ho scelto di studiare alla European Affairs perché già pensavo di andare all’estero. L’inglese per me era essenziale perché, anche nell’alternativa di rimanere a lavorare nelle agenzie legate all’Unione Europea ma in Italia, hanno come prerogativa la conoscenza della lingua inglese».

Cosa l'ha spinta a scegliere questo tipo di lavoro, a respiro internazionale?

«Ci sono una serie di vantaggi non da poco. Da una parte, a, livello lavorativo, è estremamente arricchente essere circondato da colleghi che hanno diversi background e vengono da diverse parti del mondo. Anche la vita privata ha i suoi benefici».

Anche se il costo della vita è più elevato rispetto a Bologna?

«Assolutamente sì, perché il salario più elevato compensa ampiamente il costo della vita e i vantaggi non reggono il paragone con Bologna soprattutto da un punto di vista economico. Qui gli stipendi sono più alti anche rispetto alle città italiane più grandi, Roma e Milano e, a differenza dei miei amici che lavorano in Italia, riesco a mettere da parte dei soldi. Anche a mantenere un appartamento dignitoso, sostenere una vita tranquilla».

Prende in considerazione di tornare in Italia?

«Non sono contrario a tornare, ma lo farei solo avendo garanzie di avere un certo tipo di contratto e di carriera. Come dicevo prima esistono delle agenzie simili a quelle dove lavoro anche vicino a Bologna, ma sostenere lo stesso tipo di vita con vantaggi simili per me sarebbe essenziale».

È fondamentale fare la magistrale in inglese anche per chi rimane in Italia?

«Penso proprio di sì, l’inglese dà un valore aggiunto, ormai i settori della ricerca e delle scienze sono in inglese, il settore delle compagnie allo stesso modo è internazionale. Secondo me combinando due titoli di studio, magari uno italiano e uno inglese, si ottiene un profilo completo».

 

 

Nelle immagini Ilona Babkina, Simone Friggieri e Gianmaria Dozza. Foto concesse dagli intervistati.