imprese

Renner, l’azienda leader nel settore delle vernici per legno con sede a Minerbio - che vanta un fatturato nel 2023 di 178 milioni di euro -  è la seconda impresa dopo la Lamborghini a introdurre la settimana corta per i lavoratori a parità di salario. Il nuovo accordo integrativo per il triennio 2024-2026 prevede una serie di incrementi: un bonus di produzione che passa da 1700 a 1900 euro; un premio per chi lavora volontariamente il sabato (100 euro mezza giornata, 200 turno intero); 700 euro di welfare da spendere in buoni spesa, carburante, servizi editoriali, colf e badanti, ma anche la possibilità di chiedere in anticipo il Tfr con solo quattro anni di anzianità.

La vera novità, in tutto questo pacchetto di incentivi al rialzo, sarà la sperimentazione di una graduale riduzione della giornata lavorativa per i 376 dipendenti. Da luglio, infatti, i lavoratori per un venerdì al mese, usciranno alle 13. Ogni sei mesi, poi, verrà aggiunto un ulteriore venerdì con orario ridotto. In questo modo entro due anni tutti i dipendenti della Renner lavoreranno su una settimana di quattro giorni e mezzo, percependo lo stesso stipendio ma avendo a disposizione un weekend lungo.

Ne abbiamo parlato con l’amministratore delegato Lindo Aldrovandi. Classe 1952, figlio di un carabiniere-partigiano e di una casalinga, è il manager dell'azienda dagli anni ottanta. Tra il 1987 e il 2003, sotto la sua direzione, l’impresa ha consolidato un’esperienza industriale vincente e il marchio è diventato sinonimo di vernici di alta qualità.

Lei è partito dal basso. Da operaio ad amministratore delegato. Ci racconti un po’ di più.

«Studiavo ingegneria a Bologna. In quegli anni avevo legato molto con un mio amico e compagno di studi. Purtroppo, questo ragazzo, dopo un esame medico, è morto a causa di una reazione al liquido di contrasto. Da quel momento sono entrato in crisi e ho deciso di smettere di studiare. Dovevo trovarmi un lavoro e così ho bussato alla porta della Sayerlack, un’azienda bolognese che produceva vernici per legno. Il proprietario era Giancarlo Cocchi che ha deciso di assumermi. Ma in cambio di una promessa».

Quale promessa?

«Mi ha detto che avrei potuto iniziare a lavorare per lui. Ma che un giorno avrei dovuto continuare i miei studi».

Cosa successe?

«Era il 1980. Ho iniziato come garzone di laboratorio. Pulivo i pavimenti e i banchi dei chimici. Portavo loro il materiale con cui lavorare e ho cominciato a imparare il mestiere».

Poi è arriva la svolta?

«Ho avuto tanta fortuna. E nella vita anche il fattore fortuna è determinante. Il proprietario dell’azienda aveva un figlio e da lui voleva il massimo. Pretendeva che arrivasse prima degli altri e andasse via quando non c’era più nessuno. Il figlio, che era un ragazzo, non aveva molta voglia di fare quella vita. Così gli occhi del capo mi hanno notato. Cocchi mi ha proposto di fare un percorso e lavorare nel suo studio. Da allora mi sono occupato anche della parte amministrativa».

Era arrivato il momento di mantenere la promessa?

«Esatto. Cocchi mi disse: "Ora devi laurearti, lo devi fare per te stesso e per i tuoi genitori. La mattina verrai a lavorare come al solito e il pomeriggio studierai". Mi mancavano solo tre esami. Così mi laureai in ingegneria elettrica, che tra l’altro non ha nulla a che vedere con la chimica che serve nel mio lavoro (ride, ndr). Cocchi mi ha mandato anche a studiare inglese nella scuola dove studiavano i figli. È stato un secondo padre per me».

Poi nel 1987 è diventato direttore generale.

«Si. Dopo pochi mesi, l’azienda è stata venduta a una multinazionale inglese. Solo anni dopo siamo venuti a sapere che Cocchi, all'epoca, era malato. Gli inglesi ci lasciavano lavorare in relativa autonomia ma i problemi sono iniziati quando sono subentrati gli americani. In sedici anni (fino al 2003, ndr) ho cambiato ben quattordici capi. Ogni volta si doveva ricominciare da zero».

Nel luglio 2003 poi sappiamo che arriva uno dei momenti più difficili. Quale?

«L’azienda cresceva in modo costante. Nel 1987 fatturava 36 miliardi di vecchie lire (circa 18 milioni di euro, ndr). Nel 2003 avevamo circa 300 dipendenti e un fatturato di 100 milioni di euro. Mi ricordo che in quell'anno ero in vacanza a Lampedusa con la mia famiglia. Mi chiamano per una riunione del consiglio di amministrazione. Prendo un aereo e parto. Con il consiglio parliamo e discutiamo, ma non del mio futuro. Torno dalla mia famiglia in Sicilia e trovo mia moglie in lacrime. Subito penso che fosse successo qualcosa alle nostre figlie. Invece scopro che era arrivata la lettera di licenziamento. Nel frattempo, a casa mia era arrivata un’altra raccomandata che lesse mio padre. Mi chiamò e mi chiese "cosa hai combinato?". Morì l’anno dopo e sono ancora convinto che se ne è andato con la convinzione che avessi fatto qualcosa di grave».

A quel punto si ritrova senza lavoro, con una moglie e due figlie a carico.

«Dovevo prendere una decisione. Ho pensato che volevo continuare a fare quello che avevo sempre fatto. Era agosto e mi metto in contatto con i figli di Cocchi con cui avevo mantenuto un ottimo rapporto. Gli propongo di ripartire e loro si uniscono a me. In Brasile il fondatore dell’azienda di Pianoro aveva creato una società con la quale avevamo un contratto di concessione. Così volai in Sudamerica per proporre la mia idea e mi seguirono anche i brasiliani. A ottobre avevamo già 3 chimici, poi nei successivi 2-3 anni si sono uniti altri 70 lavoratori».

Nasce così Renner Italia che avrà una storia di successo.

«Nel 2021 avevamo raggiunto la prima posizione in Italia nel settore con 165 milioni di fatturato e ora abbiamo un bilancio migliore dei nostri concorrenti nonostante questi abbiano molti più anni di attività».

La Renner è cresciuta ma ha sempre tenuto al centro i lavoratori. Con il nuovo contratto integrativo avete aumentato le somme per il welfare aziendale da 500 a 700 euro e avete previsto un abbassamento dell’anzianità per richiedere il Tfr a quattro anni di servizio. Ma la vostra azienda, fin dal 2009 divide una parte degli utili tra i dipendenti.

«Le persone devono essere soddisfatte sia per l’ambiente di lavoro che per la retribuzione. Negli ultimi quattordici anni abbiamo dato 32 mila euro a lavoratore come premio di partecipazione. Se facciamo il calcolo, vuol dire che ogni dipendente ha avuto circa 2300 euro in più all'anno in busta paga».

L'azienda ha anche deciso di introdurre la settimana corta a parità di retribuzione. 

«Da luglio un venerdì al mese si uscirà alle 13. Ogni sei mesi, poi, si aggiungerà un venerdì in modo che tra due anni tutti i dipendenti avranno la settimana corta. Per sopperire al calo della produttività abbiamo deciso comunque di assumere nuovo personale».

E la campagna per le nuove posizioni come è andata?

«La campagna è durata undici giorni. In poco tempo abbiamo ricevuto più di 1000 curricula. Un grande successo. Ventotto lavoratori sono già stati inseriti e altri sei stanno per entrare».

Una decisione consapevole, quindi, quella di ridurre il numero di ore lavorate ma assumere più personale?

«Più che consapevole».

Voi esportate verso 67 nazioni tutto il mondo, alcune delle quali in Asia. Il recente conflitto in Israele, con gli attacchi dei ribelli Houthi nello stretto di Bab al-Mandab sta impattando negativamente sul vostro export?

«Purtroppo si. L’anno scorso abbiamo esportato i nostri prodotti verso l’India per un totale di 40 milioni di euro. Molta di questa merce passa tramite nave proprio per il Mar Rosso e adesso sono costrette a circumnavigare l’Africa. Il mese scorso, a causa di questo nuovo percorso, per far viaggiare 40 container abbiamo registrato una perdita di 103mila euro».   

Dal 2014 la fabbrica è alimentata solo da energia proveniente da fonti rinnovabili. Siete un’azienda attenta anche alla sostenibilità?

«È uno dei nostri obiettivi. Abbiamo installato sui tetti della nostra fabbrica ottomila metri quadri di pannelli fotovoltaici che ci assicurano di coprire al 40% il nostro fabbisogno energetico. Il restante dell’alimentazione necessaria alla nostra fabbrica viene acquistata ma l’energia proviene solo da fonti rinnovabili».

 

L'amministratore delegato Lindo Aldrovandi. Foto: Ufficio Stampa Renner Italia