Città 30

In un recente articolo pubblicato su “Il Giornale dell’Architettura”, Luigi Bartolomei, docente del Dipartimento di Architettura dell’Università di Bologna, dove ha insegnato anche Architettura delle infrastrutture e del paesaggio, ha definito Città 30 «un sistema che scricchiola». Lo abbiamo intervistato per capire quali sono i punti deboli della novità che sta animando e dividendo il dibattito pubblico bolognese.

 

Città 30 è un modello che in molte città estere funziona. Ritiene che possa funzionare anche a Bologna?

«In generale, far rispettare un limite di velocità in città è positivo, ma ritengo che il processo di Città 30 sia stato avviato d’impeto e che si sarebbero dovute impiegare altre modalità per introdurre un divieto di tale portata su una scala territoriale dell’ampiezza dell’intero territorio comunale, peraltro senza prima aver costruito una solida opinione pubblica. Questo mi fa pensare che Città 30 sia un'iniziativa che aderisce più a uno slogan politico, a una “moda”, che alla reale fisionomia territoriale».

 

Su quali elementi si sarebbe dovuti intervenire prima di imporre il limite dei 30?

«Città 30 non è solamente un limite di velocità ma anche una misura dell’architettura. Se lei circola a 30 km/h noterà una marea di dettagli in più, per questo bisogna che la strada su cui viaggia le restituisca la sensazione di stare girando in un salotto, una specie di casa comune. Ci deve essere, dunque, una qualità dell’intero sistema ambientale che la circonda, con un disegno che qualifica la pavimentazione, le piste ciclabili e le aree pedonali».

 

“Casa comune” è un concetto che fa pensare a un certo coinvolgimento dei cittadini nei cambiamenti urbani.

«Esatto. Credo che sarebbe stata opportuna una maggiore partecipazione pubblica alle decisioni che riguardano gli spazi pubblici, un elemento doveroso soprattutto all'interno di aree circoscritte, come i quartieri».

 

A questo proposito, cosa andrebbe migliorato nei singoli quartieri per far aderire meglio il modello di Città 30?

«Implementare i percorsi pubblici e il disegno delle piazze e degli spazi verdi, oltre alla qualità di realizzazione dei percorsi pedonali appositamente progettati per i più fragili, e applicare una cura del territorio che investa ogni singolo centimetro dello spazio pubblico».

 

Questo, però, richiede del tempo.

«Il miglioramento dovrebbe essere strutturato in termini di processo, non solo di progetto. Ciò vuol dire che si deve impiegare un lungo arco di tempo per avviare una consultazione anche con i cittadini, permettere loro di partecipare. Valorizzare e premiare quelle competenze che la popolazione ha sul territorio, perché non è vero che i cittadini non hanno delle competenze: piuttosto non viene data loro fiducia e i percorsi di partecipazione sono fittizi, asseverazioni di decisioni già prese. Sarebbe opportuno che questi nuovi limiti alla velocità si sposassero a un nuovo disegno condiviso della città, ma ciò richiederebbe molto più tempo di quanto ne abbia una singola amministrazione, almeno tre o quattro anni».

 

Servono competenze perché i cittadini possano partecipare al processo di ridisegno degli spazi pubblici?

«Non c'è bisogno di essere ingegneri o architetti per capire quali elementi mancano e dove; gli stessi genitori con i passeggini sanno benissimo dove si può attraversare la strada e dove no, perché, per esempio, in quel punto manca la pendenza. Naturalmente, a queste voci bisogna affiancare le competenze e le nozioni specifiche che provengono dagli esperti, e indubbiamente il percorso di partecipazione è un percorso complesso. Ma non impossibile, se c’è una reale disponibilità da parte dell’amministrazione ad ascoltare le voci dei cittadini, e la volontà politica di investire affinché il disegno della città nasca dal basso, grazie all’impegno di professionisti in percorsi di progettazione partecipata che, in Italia, iniziano a popolare alcuni contesti e che all'estero sono già radicati».

 

Nell'immagine Luigi Bartolomei. Foto concessa dall'intervistato.