Carceri

Joy al lavoro Foto di Lavinia Sdoga

Capelli lunghi sin sotto la schiena, perfettamente raccolti in finissime treccine afro fucsia fluo, ombretto chiaro a illuminare un viso color nocciola. È Joy, trentacinquenne nigeriana, detenuta della Dozza, la Casa Circondariale di Bologna. Mentre ricama l’orlo di un jeans, nella sede esterna della sartoria Gomito a Gomito, in via Jacopo della Quercia 4, Joy sorride, è serena. Nonostante stia ancora scontando la sua pena, infatti, le è stato dato il permesso di uscire, di respirare libertà. Un esempio fortunato. Purtroppo, uno dei rarissimi. Infatti, come osserva Roberto Cavalieri, garante dei detenuti Emilia-Romagna – a fronte di 153 detenute donne in tutta la regione – sono solo due quelle assunte alle dipendenze di aziende esterne al carcere. Le ragioni, secondo il garante, riguardano le politiche che disciplinano il funzionamento degli istituiti – che da sempre mirano a privilegiare la maggioranza (ossia i detenuti uomini), facendo lavorare solo loro e penalizzando le donne – e la disposizione degli ambienti, per cui «troppo pochi spazi sono destinati alle sezioni femminili». Un quadro critico insomma, ma la situazione non è di gran lunga migliore neanche a livello generale. Sono 3.500 i detenuti nelle carceri dell’Emilia-Romagna, 2.450 quelli condannati con pene definitive. «Solo questi ultimi possono lavorare all’interno degli istituiti penitenziari – spiega il garante – quindi, partendo da un totale di 3.500, la forza lavoro potenziale si riduce al 70%». Ma da questo conteggio vanno ‘sottratti’ i detenuti al 41bis – circa una settantina – le persone anziane, i disabili e tutti coloro ritenuti ‘inabili’ e ‘inadatti’ all’attività lavorativa. E così il numero reale di detenuti che possono lavorare scende ancor di più, arrivando a malapena a 1.800. «L’amministrazione penitenziaria ne occupa ogni giorno circa 900 – spiega Cavalieri – ma si tratta di ‘lavoretti domestici’: pulizie, aiuto cuoco, manutenzioni, gestione della spesa». Se si calcolano, invece, quelli alle dipendenze di aziende esterne, ecco che il numero cala drasticamente, arrivando a poco più di 150 persone. L’atteggiamento di chiusura degli imprenditori e la resistenza della popolazione carceraria sono, secondo il garante, le motivazioni principali. «C’è un radicato pregiudizio nei confronti dei detenuti e uno scarso riconoscimento dell’impiego da loro svolto nelle carceri – spiega – inoltre, servirebbe incentivare la cultura del lavoro tra i carcerati: non sempre ciò che gli si offre viene ritenuto appetibile e in molti lo rifiutano». Tutto ciò è «alquanto preoccupante», soprattutto se si considera che il lavoro, oltre a essere uno dei più importanti agenti di trasformazione dell’individuo, è anche un riparo dal possibile rischio di recidiva, cioè del ritorno al crimine. «Non basta però solo quello, serve di più – dice Cavalieri – cosa se ne fa il detenuto di un impiego se, all’uscita dal carcere, sa già che non troverà una casa?». Occorrerebbe «maggior allineamento tra le politiche abitative e quelle occupazionali»: solo così quello del lavoro diverrebbe un «reale progetto d’emancipazione e non una semplice e isolata soluzione tampone». Infatti, sebbene rappresentino una valida alternativa all’ozio della cella, non tutti questi programmi rappresentano dei «modelli effettivamente esportabili all’esterno» e non tutti si concretizzano in efficaci occasioni lavorative. Tuttavia, in un quadro di diffusa e generale criticità non mancano esempi di iniziative e storie virtuose, anche per le donne. Come, appunto, quella di Joy che, arrestata nel carcere di Modena nel 2015 – e poi trasferita alla Dozza – ha iniziato lavorando nelle cucine, per circa un anno. Poi, nel 2018 le propongono un corso di cucito e lei, che sino ad allora non aveva mai preso in mano ago e filo, accetta. «Con Gomito a Gomito è stato amore a prima vista – racconta – il lavoro sartoriale mi è subito piaciuto e mi appassiona sempre più». Joy dice che è bello perché è diverso: non il monotono lavoro d’ufficio, non quello statico da scrivania. «Qui è una continua scoperta, ogni volta c’è qualcosa di nuovo da fare: abiti, borse, cappelli». È questo che la sprona e le fa brillare gli occhi. La stessa cosa che le ha fatto guadagnare prima un contratto di tre mesi e poi uno a tempo indeterminato. «Gomito a Gomito è stata la mia salvezza, la mia rinascita: finalmente le mie giornate hanno ripreso un senso. Non ero più costretta a girare a vuoto per la cella solo per passare il tempo, ora avevo un motivo, potevo lavorare». Joy oggi non è più in carcere, ma vive nell’istituto missionario “Ancelle Dei Poveri”, una struttura gestita dalle suore che ospita donne in difficoltà. «Ora la mattina mi alzo e, felice, vengo qui in sartoria – racconta la giovane – poi, finite le mie cinque ore giornaliere, torno a casa soddisfatta». Mentre in sottofondo risuonano vivaci note di musica nigeriana, Joy si spalma un po’ di crema sulle mani, massaggia per bene le dita, si accarezza i polpastrelli. Il suo lavoro è tutto lì, in quelle mani, ruvide e dolci, possenti e leggiadre. Le fa scivolare delicatamente tra le stoffe colorate. «Non è vero che in carcere c’è solo il ‘male’ – dice Joy mentre con il piede batte il pedale della macchina da cucire – è lì che ho trovato lavoro. Ed è proprio grazie a questo lavoro che adesso, finalmente, respiro libertà». Il laboratorio di sartoria di cui parla la ragazza, per l’appunto Gomito a Gomito, è nato nel 2010 all’interno della Casa Circondariale di Bologna, con lo scopo di offrire opportunità lavorative alle detenute della struttura. ‘Dare nuova vita alle stoffe per dare nuova vita alle persone’: è questa l’aspirazione più profonda del progetto. «Realizziamo prodotti con le rimanenze di magazzino – racconta la coordinatrice Enrica Morandi – non acquistiamo nulla dalle industrie, ma ricicliamo materiale tessile. È un doppio binario: regalando una seconda chance a materiali, altrimenti destinati al macero, le detenute regalano una seconda opportunità anche a loro stesse». Il lavoro sartoriale ha una funzione terapeutica. «Non è solo l’apprendimento di un mestiere, ma molto di più: è dare un senso alle proprie giornate, lavorare in creatività, trovare un’alternativa all’ozio della cella». Gomito a Gomito, la cui produzione è interamente artigianale e destinata alla vendita autonoma, ha due spazi: il laboratorio interno alla Dozza, dove lavorano due detenute, e la sede esterna nella quale sono impiegate una ex detenuta e altre due in stato di semi-libertà, tra cui Joy. Le dipendenti, sindacalmente protette, sono lavoratrici a tutti gli effetti con un orario di lavoro parttime cinque mattine a settimana per quattro ore. Ma c’è dell’altro. Sempre a Bologna, questa volta per gli uomini, è nato una decina di anni fa Fare Impresa in Dozza, il progetto che impiega i detenuti in lavori di carpenteria, assemblaggio e montaggio di componenti meccanici. Frutto della collaborazione tra tre aziende leader nel settore del packaging, Gd, Ima, e Marchesini Group, secondo Cavalieri: «L’esperienza funziona bene anche grazie all’investimento dell’amministrazione penitenziaria che ha destinato all’attività spazi specifici all’interno della struttura». Diversamente, «nelle realtà in cui invece l’amministrazione penitenziaria è meno presente o non investe, i progetti lavorativi non sono proficui e destinati al fallimento». Ma non è questo il caso di Libelabor, la lavanderia industriale – nata dall’unione delle cooperative Proges, Multiservice, Biricca, e Gsg srl – nel carcere di Parma. Anche in questo caso, si tratta di un esempio virtuoso, sebbene la partenza non sia stata delle migliori. «L’idea ha preso forma nel 2017, ma il progetto è partito solo nell’agosto di quest’anno – spiega il presidente Gianluca Coppi – c’è stato bisogno di un lungo periodo per adattare l’ambiente e renderlo consono alle esigenze lavorative. Abbiamo così convertito un ex capannone, dotandolo di nuovi impianti e tubature, per dedicare a Libelabor uno spazio apposito della struttura». Al momento nella lavanderia lavorano per venticinque ore alla settimana otto detenuti, affiancati da altri cinque dipendenti esterni, che svolgono attività di formazione, controllo e supervisione sull’intero processo produttivo. «All’interno ci sono due sezioni – racconta Coppi – una per il lavaggio e lo smistamento della biancheria in entrata e l’altra per la piegatura e la spedizione». Tutte le lavorazioni vengono svolte dai detenuti all’interno della struttura, mentre una ditta esterna si occupa del trasporto. «Attualmente lavoriamo solo per le nostre cooperative socie – spiega il presidente – queste, essendo attive nel campo della ristorazione, affidano a noi il lavaggio di biancheria e tessuti vari, per poterli poi riconsegnare presso le strutture a cui offrono servizio». Bologna e Parma – ma anche Castelfranco Emilia, Modena e Forlì – sono quindi, secondo il garante, le strutture a funzionare meglio a livello regionale. All’altro estremo, invece, Ravenna e Piacenza, ove mancano risorse umane competenti e adatte al lavoro: «Pochi detenuti parlano l’italiano, il che rende impossibile offrire loro un impiego». Dunque, una realtà piuttosto variegata, fatta di qualche luce e tante ombre, debolezze e opportunità. Un dipinto in bianco e nero che si spera possa presto riprendere colore, affinché per tante persone, così come per Joy, il lavoro in carcere diventi occasione di libertà. 

 

Questo articolo è già stato pubblicato nel numero 13 di Quindici, il bisettimanale di InCronaca, in data 14 dicembre 2023

Nell'immagine, Joy mentre cuce nella sartoria di Gomito a Gomito. Foto di Lavinia Sdoga