docufilm

via argine 310

Sono state 317 le persone licenziate lo scorso marzo dall’azienda Whirpool a Napoli. Oggi, alle 21, al cinema Orione di Bologna viene proiettato il docu-film Via Argine 310 che racconta, lungo dodici mesi, questa tragica storia. Ne abbiamo parlato con il regista Gianfranco Pannone.

 

Nel suo documentario ha cercato di raccontare questa vicenda così complessa e drammatica. Ha voglia di ripercorrere come è nata questa iniziativa?

«In realtà non parte da me ma dalla sensibilità di Alessandro Siani che ha ideato questo progetto. Lui è figlio di un operaio degli anni ’90, quindi conosce il dramma di un capofamiglia che si ritrova in cassaintegrazione. Io ho aderito sia da napoletano ma anche da nipote di un operaio. Mio nonno è stato operaio e quindi anche io conosco bene la vicenda operaia a Napoli. E mi hanno chiamato proprio per questa doppia appartenenza».

 

A tal proposito lei è un regista con una forte vocazione politica. Come è stato per lei lavorare con Siani?

«Siani non è solo un comico ma anche un regista. Lui lavora più sul cinema d’intrattenimento ma il rapporto è stato molto interessante perché personalmente credo molto nella commistione della cultura alta e quella cosiddetta pop. Lui ha molto rispettato il mio ruolo e non è intervenuto nel testo. Ho voluto coinvolgerlo come voce narrante; infatti Siani legge dei passi de La Dismissione di Ermanno Rea, un romanzo che racconta la chiusura di fabbriche a Napoli a partire dagli anni ’90. È stata una persona molto equilibrata nonostante sia una star e si è dimostrato davvero molto umile. Fare i conti con la cultura popolare per me è fondamentale. Posso fare riferimenti alti ma il contadino è importante quanto il poeta».

 

Lei racconta la storia di una Napoli operaia che però spesso non si conosce. Come mai?

«Uno degli ultimi film a raccontare la storia industriale di Napoli è stato 7 minuti di Michele Placido che però è uscito sette anni fa. La cosa che mi stava più a cuore era proprio quella di dare al capoluogo campano una voce un po’ diversa. Perché se è vero che l’industria non è più centrale come un tempo, è anche vero che non è scomparsa. Eppure la narrazione odierna passa solo da Gomorra al turismo. Il problema è che l’esperienza di Whirpool è il gran finale di una dismissione industriale avvenuta nel tempo che ha depauperato il tessuto industriale della città. Contava decine e decine di fabbriche ma nel giro di 35 anni sono state chiuse. Mi sembrava importante restituire questa testimonianza di operai e operaie che vivono nell’incertezza e al tempo stesso nella speranza che parta un nuovo consorzio. In una città come la nostra, tra l’altro, dove perdere il posto di lavoro vale tre volte di più perché finisci nei mari della camorra e criminalità organizzata».

 

E come si inserisce questo documentario nel contesto nazionale, dal momento che questa dimensione di incertezza ormai dilaga?

«Questa storia, infatti, da una parte riguarda Napoli e la storia delle sue fabbriche di cui nessuno sa nulla; ma dall’altra è una storia universale. Oggi, infatti, non ci sono più le certezze di un tempo sul lavoro, è un mondo scomparso per l’automatizzazione e la delocalizzazione. Si tratta di due problemi molto seri che creano disagio e precarietà. Quindi il rischio è che dilaghi il precariato e questo ovviamente genera molta insicurezza. Non sta succedendo solo a Napoli ma anche in tante città italiane, si pensi a Genova e Firenze, ma anche in altre città europee».

 

Quanto è importante il fenomeno di delocalizzare aziende in luoghi più economici?

«Molto. Ormai non conviene tenere in piedi fabbriche in un Occidente che è troppo dispendioso quando puoi delocalizzare in un Paese dell’est. In questo caso hanno sacrificato Napoli per questioni di risparmio ma con una violenza inaudita perché la fabbrica andava bene, era in attivo e c’era un sistema tecnologico interno di automazione all’avanguardia; quindi la cosa ha lasciato maggiore amaro in bocca negli operai e nelle operaie. Si tratta di un liberismo sfrenato che credo stia contribuendo a creare una società sempre più selvaggia. E ho cercato di far uscire tutto ciò non attraverso programmi ideologici ma attraverso le vite delle persone».

 

Come è stato per lei ascoltare e raccontare le storie di queste persone che hanno vissuto un’esperienza drammatica?

«Dico sempre che ho fatto un film “con e non su”; ho cercato di partecipare a una vicenda, di mettermi in ascolto per poi fare delle scelte e elaborare il racconto. Ho cercato in tutti i modi di rispettare queste persone con le loro paure, i lori timori e le disillusioni. Quando si fa un film documentario bisogna mantenere l’equilibrio tra creatività e consapevolezza che non si sta lavorando con degli attori, ma con persone in carne e ossa, con un vissuto spesso doloroso».

 

Il presidio Whirpool – Napoli non molla dopo la sua creazione, avvenuta più di tre anni fa, continua a essere attivo. Può quest’esperienza esser un patrimonio per il mondo operaio?

«La cosa che personalmente mi ha colpito è la resistenza di queste persone; il fatto che loro ci siano e non abbiano mollato gli fa onore. Li dentro c’è un’energia molto partenopea: non ci si arrende mai veramente. Ma si tratta un’energia scaturita anche dalla consapevolezza del proprio ruolo. A oggi sono in attesa di sapere se nascerà un altro consorzio industriale, ma nulla è certo e va dato per scontato».

 

Questa è una storia di resistenza sindacalista in una società come la nostra all’interno della quale la dimensione collettiva sembra essere scomparsa; ma il film e quest’esperienza hanno contribuito a creare nuovi legami?

«È importante ricordare che questa è la storia di un gruppo di operai e operaie, ma anche la storia di una sconfitta sindacale che non ne esce bene. Forse perché il sindacato è diventato troppo mediatore quando la lotta si deve fare più dura. Detto ciò tutte queste persone sono cresciute e hanno trovato una solidarietà molto bella da parte della città. Ovviamente dopo tre anni può esserci un po’ di stanchezza ma è stato sicuramente un momento di crescita e fierezza, anche nel ruolo di rappresentazione che queste persone hanno avuto di un mondo che si ritiene scomparso ma scomparso non è».

 

Quindi possiamo dire che quest’esperienza ci offre la possibilità di sperare che la dimensione collettiva può essere recuperata?

«Credo molto nel noi, e nel concetto di comunità. Oggi siamo particelle che vanno per conto proprio, ma il mondo del lavoro ne risente inevitabilmente. Infatti, credo che senza la condivisione del proprio ruolo e senza il sentimento di comunità, la società rischi davvero di perdersi. Il Covid ha accentuato la nostra dimensione individualistica, ma gli operai e le operai della ex Whirpool dimostrano il contrario; mentre c’era il Covid hanno continuano a vedersi, sono rimasti uniti, hanno continuato a protestare e a lottare. Questa è la dimostrazione che il mondo delle monadi può essere superato alla faccia di tanti pessimisti».

 

Nel documentario ci sono varie protagoniste donne ma qual è oggi la condizione della donna operaia?

«Le donne hanno un ruolo fondamentale in questo film. Si tratta di donne che non erano spesso sindacalizzate perché spesso la dimensione politica è appartenuta più al mondo maschile. Ma con questa esperienza hanno trovato una consapevolezza nuova. Ci sono donne molto agguerrite e quindi oggi la proiezione a Bologna la dedichiamo proprio alle donne della Whirpool. E questa terribile esperienza è stata importante perché ha permesso loro di crescere. Quello di oggi è un mondo in cui le donne, nonostante un ritrovato protagonismo, continuano ad avere un ruolo subalterno. Sarà che a Napoli vige un matriarcato e una presenza femminile molto forte, ma queste donne sono un po’ le star del film. I loro volti, i loro modi dire e soprattutto la loro capacità di unire il pubblico e il privato, rappresentano un collante essenziale. Spesso gli uomini, infatti, in questo riescono meno. Quando parlano le donne si percepisce sempre una maggior sofferenza e consapevolezza e della propria condizione».