Quindici

Travaglio

«Si dice che i giovani non leggano più i giornali e che preferiscano altre forme di auto-informazione. Quando vengo a Bologna questa diceria viene smentita. I teatri si riempiono di ragazzi e ragazze informati e per un giornalista dialogare con loro non è una cosa molto frequente. Quando vengo qui ho sempre voglia di restare». Marco Travaglio, direttore del Fatto Quotidiano, parla di informazione e della seconda stagione del suo spettacolo, “I migliori danni della nostra vita”, in scena, con due appuntamenti il 29 e il 30 aprile, al teatro Duse. Una versione «aggiornata» che racconta gli ultimi venti anni di storia politica italiana dipinta come un «teatrino dei pupi, in cui destra e sinistra simulano lo scontro ma in fondo incarnano le due facce della stessa medaglia».

Una realtà che è essa stessa una rappresentazione teatrale, «anche abbastanza dozzinale», declinata con l’ironia della satira. Travaglio - salito alla ribalta dell’opinione pubblica anche per la sua clamorosa intervista del 2001 rilasciata a Daniele Luttazzi nella trasmissione Satyricon in cui parlava dei legami tra mafia e Berlusconi – mette da parte la narrativa giornalistica adottando sul palcoscenico lo stile che mette in ridicolo il potere politico. «La satira - sostiene - è un linguaggio più efficace dell’invettiva e della predica. Quelle non sono adatte per far capire la situazione italiana, che come diceva Ennio Flaiano, “è sempre tragica ma non è mai seria”». Al centro dello spettacolo c’è l’idea che negli ultimi anni le papille gustative dell’elettorato italiano siano state anestetizzate in modo da far nascere «dei palati di acciaio inossidabile e degli stomaci di ghisa capaci di farci digerire di tutto». Un gioco delle tre carte in cui «i poteri marci della politica, della finanza e della sottostante “informazione” hanno ribaltato il voto degli italiani ogni volta che chiedevano un cambiamento e l’hanno trasformato in restaurazione, facendo risorgere l’Ancien Régime nelle forme più varie: quelle tecnocratiche di Monti e Draghi, quelle finto-progressiste di Letta e Renzi, quella destrorsa della Meloni, una restauratrice travestita da rivoluzionaria».

Eccoli, per l’appunto, «i migliori danni» della nostra vita, tutti fotografati nella copertina dello spettacolo. Una restaurazione che ha avuto una battuta di arresto quando «la gente ha cominciato a scoprire il bluff del falso bipolarismo» facendo nascere quel fenomeno di rivolta contro le élites che ha portato i Cinque Stelle – esclusi dai mali del nostro tempo - al 33% dei consensi. Un colpo di reni fatto subito rientrare – dice Travaglio – attraverso il convincimento «prima di Salvini e poi di Renzi a far cadere i due governi Conte e riportare le lancette dell’orologio a quindici anni fa». Ma il leader dei Cinque Stelle non è l’unico a non essere ritenuto un «danno» per la storia del nostro Paese.

«Penso che il primo governo Prodi, insieme ai due governi Conte, sia stato il meglio che abbiamo avuto negli ultimi quarant’anni. Non a caso durò solo un anno e mezzo, buttato giù perché non voleva bombardare la Serbia piegandosi agli ordini della Nato, come raccontò l’ex presidente della Repubblica, Francesco Cossiga». Una strategia che, secondo Travaglio, le élites - ossia «quelli che hanno distrutto l’Italia con le privatizzazioni e con l’austerità selezionata per i poveri» - adottano spesso per scalzare via personaggi scomodi. «Si inventano delle categorie per esorcizzare questa ribellione che non si capisce. E quindi un giorno ci sono i pacifisti, un altro i giustizialisti, poi i putiniani, definiti così perché non vogliono una terza guerra mondiale atomica. È una propaganda drammatica ma allo stesso tempo comica. Raccontarla con la satira è più efficace, se ci fai una battuta sopra arriva in modo più diretto».

Per il direttore del Fatto Quotidiano, quindi, gli antidoti a questa falsa pantomima sono la messa in ridicolo attraverso la rappresentazione scenica e un’informazione di qualità. Un’informazione libera e autonoma come Travaglio definisce quella del suo quotidiano, fondato nel 2009, con 51.405 copie vendute - tra carta e digitale - nel mese di febbraio 2024, l’unico tra i maggiori giornali italiani a segnare un segno positivo (+5,35%) sul febbraio dell’anno precedente. «È un miracolo del quale io mi stupisco tutti i giorni. Abbiamo un numero di lettori che è addirittura in ascesa. Non penso che sia perché siamo più bravi degli altri, credo che siamo più fortunati. Avere un giornale senza padroni oggi è una fortuna». In un Paese che si colloca al 41esimo posto nella classifica 2023 sulla libertà di stampa - stilata da Report Senza Frontiere - e in cui Fratelli d’Italia propone il carcere fino a quattro anni per il reato di diffamazione (già dichiarato incostituzionale dalla Consulta nel 2021) il tema dell’informazione libera resta un argomento caldo.

La discussione si è accesa recentemente in relazione al tentativo di acquisizione di Agi da parte del deputato leghista Antonio Angelucci (già proprietario dei quotidiani Libero, Il Tempo e Il Giornale, ndr) e alla sfiducia del comitato di redazione di Repubblica al direttore Molinari, accusato di aver censurato un articolo sgradito al suo editore. «Ormai abbiamo dato per normale che chi fa politica direttamente possa possedere mezzi di comunicazione. Che l’indipendenza dell’Agi sia messa in pericolo da Angelucci è una frottola. L’Agi è di proprietà dell’Eni e l’Eni dipende dal Governo. Questo meccanismo è un residuato bellico della prima Repubblica che è sopravvissuto nell’indifferenza generale. Ma, in caso di vendita ad Angelucci, non possiamo dire che una casella di libertà passi al servaggio. Sarebbe piuttosto una casella del servaggio che cambia padrone. Per quanto riguarda Repubblica, posso dire che contano molto la personalità, la professionalità e la libertà personale dei direttori. Non credo che Ezio Mauro, Giulio Anselmi o Paolo Mieli avrebbero mai dato una prova di servitù volontaria così smaccata come quella che abbiamo letto nella denuncia del comitato di redazione di Repubblica. Si può e si deve resistere. Magari ti fai cacciare, ma almeno la tua faccia rimane intatta».

La «credibilità e la prestigiosità» delle firme dei giornalisti sono per Travaglio i motivi del successo del Fatto Quotidiano, un giornale che si vanta di sostentarsi esclusivamente con le vendite e la pubblicità senza ricevere alcun finanziamento pubblico. «Il nostro modo di fare giornalismo ha bisogno di firme riconoscibili, che abbiano una buona reputazione e che non la perdano. Quando, nel 2009, insieme a Padellaro, Gomez, Lillo e altri abbiamo visto che il mercato dell’editoria ci chiudeva le porte abbiamo deciso di fare le cose per conto nostro. Ai lettori non puoi mentire mai, altrimenti ti mollano subito». Un’attività non sempre semplice da esercitare, visto che per il direttore del Fatto c’è un chiaro intento della politica - portato avanti anche attraverso la “norma Bavaglio” che vieta la pubblicazione dei testi delle ordinanze di custodia cautelare prima dell’inizio dei processi- di nascondere ai cittadini i segreti del potere. «Fare giornalismo di inchiesta e raccontare quelle della magistratura è fondamentale ma il potere sta cercando di impedircelo. Se dovessimo fare i riassunti con parole nostre, faremmo un pessimo servizio ai nostri lettori e saremmo molto più esposti al rischio di querela».

Insomma per resistere ci si deve informare, sui giornali ma anche attraverso la satira di uno spettacolo teatrale.