immigrazione

Qualche settimana fa, la notte tra il 28 e il 29 settembre, due ragazzi nordafricani di quindici anni hanno cercato di violentare una donna in via Belle Arti, in pieno centro a Bologna. Erano ospiti di Villa Aldini, un centro di accoglienza per migranti minorenni senza famiglia. Il caso ha acceso i riflettori sul funzionamento del sistema che si occupa dei bambini e delle adolescenti migranti. Come è organizzato? Chi si occupa nel territorio di seguire e aiutare le migliaia di ragazzi che cercano un futuro nel nostro paese? L’accoglienza in Italia L’accoglienza dei minori è divisa in due fasi: non appena i ragazzi arrivano trovano rifugio nei centri di prima accoglienza – strutture statali con lo scopo di fornire un primissimo livello di assistenza e svolgere tutte le operazioni di identificazione, al massimo entro 30 giorni. Poi si passa nelle strutture Sai, dove inizia il vero e proprio programma di integrazione: si va a scuola, si frequenta un corso di italiano, si è seguiti da educatori e psicologhe. Eppure, rimanere 30 giorni in questi luoghi è davvero raro; spesso passano mesi prima di essere trasferiti, a patto che, durante il tempo trascorso, non si compia la maggiore età. Ma, a causa della carenza di strutture di prima accoglienza, il rischio è anche che i ragazzi, subito dopo essere sbarcati, arrivino direttamente nei centri Sai. È quello che è successo a Villa Aldini che, pur essendo inserita nel Sistema Sai «si è trasformata in un centro di prima accoglienza, con tutte le storture che ne derivano», lamenta l’assessore bolognese al Welfare Luca Rizzo Nervo; infatti «un conto è lavorare con minori che hanno consolidato la loro esperienza da tempo, un altro con ragazzi appena sbarcati. L’accoglienza è un circolo che, se funziona, è virtuoso. Altrimenti, rischia di essere vizioso». La situazione in Emilia-Romagna In regione sono 1.795 i minori stranieri non accompagnati: cinquecento si trovano a Bologna, ma di questi solo 350 vivono nei centri Sai. Inoltre, nella regione non esistono veri e propri hub di prima accoglienza, ma solo centri straordinari (Cas) attivati dalla Prefettura – opzione introdotta proprio per supplire a questa mancanza. Di fatto, spiega il referente della Regione in tema d’immigrazione Andrea Facchini, in Emilia Romagna, esistono solo due Cas, uno a Ferrara e l’altro a Ravenna. Per questo il Comune e la Prefettura di Bologna stanno cercando di inaugurare un hub di prima accoglienza – il primo in regione – a Sasso Marconi. È qui che dovrebbero essere trasferiti anche i ragazzi di Villa Aldini: «Non ho nessuna preclusione rispetto al fatto che Sasso Marconi accolga questa struttura; è compito delle amministrazioni locali farsi carico della gestione e dei percorsi d’inclusione» dice Roberto Parmeggiani, sindaco di Sasso Marconi; e dello stesso parere sembra essere la cittadinanza. «La cosa importante è che il nostro comune non sia lasciato da solo – continua il sindaco – per questo, la Città metropolitana ha chiesto che il rimborso giornaliero pro capite sia più alto di quello stanziato fino ad ora». Attualmente, infatti, agli enti gestori vengono assegnati solo 60 euro pro capite al giorno; si tratta di una cifra molto bassa che porta le associazioni a disertare i bandi per la gestione dei centri.

Le storture del sistema

Ma il problema non riguarda solo la mancanza di strutture, considerando che in Italia ci sono circa 23.000 ragazzi e solo 6.000 posti disponibili; infatti, anche i centri Sai non sempre funzionano. I ragazzi, spesso, non sono seguiti da una psicologa durante il periodo di accoglienza e non è difficile immaginarne l’importanza. «Un ragazzo mi ha raccontato di essere rimasto per un anno in un lager in Libia insieme al fratello di 8 anni – racconta Luca, che ha lavorato in un centro per minori e che preferisce rimanere anonimo – Lavoravano tutto il giorno e ogni sera consegnavano i soldi guadagnati alla polizia libica. Quando il fratello si è ammalato e non è andato al lavoro, la polizia ha chiesto comunque i soldi. Gli hanno sparato e ha visto morire il fratello nel giro di pochi attimi. Ha deciso in quel momento di scappare e imbarcarsi per l’Italia. A sorprendermi è stata la tranquillità con cui me ne ha parlato, come se stesse parlando del gelato che si era comprato poco prima». E ad essere complicata è anche la convivenza all’interno dei centri, dove spesso si creano fazioni in lotta tra loro: «Albanesi contro tunisini, bianchi cristiani contro neri mussulmani. Una domenica – racconta Luca – avevo comprato un pallone per organizzare una partita a calcetto. Abbiamo giocato, si è fatta l’ora di cena e quando sono andato a farmi una doccia ero davvero soddisfatto, tutto era andato liscio. Dopo poco è scoppiata una lite perché un ragazzo albanese si era pulito i piedi sul tappetino di un ragazzo somalo che stava pregando. Lì per lì sono riuscito a gestirla finché, dopo cena, abbiamo sentito il rombo di una macchina da cui sono scesi quattro ragazzi albanesi. Hanno iniziato a picchiare il ragazzo somalo, poi è arrivato un altro ragazzo, e hanno iniziato a picchiare anche lui perché era nero. Ero lì e non sapevo che fare».

L’evasione scolastica

E se la scuola dovrebbe aiutare a superare queste tensioni, spesso anche il percorso di formazione è carente. Il progetto prevede che i ragazzi frequentino un istituto professionale al mattino, e di pomeriggio vadano alla scuola di italiano; tuttavia, non sempre (anzi, quasi mai) partecipano attivamente al percorso. «Non esiste un obbligo scolastico per cui arrivano i carabinieri se i ragazzi non vanno a scuola – racconta l’assessore Rizzo Nervo – quindi una parte di questo percorso dipende anche dall’adesione dei minori». I motivi che determinano l’evasione scolastica sono tanti: c’è chi non capisce nulla perché le lezioni sono in italiano, chi deve guadagnare quindi cerca un lavoro o comincia a spacciare; chi si rifiuta a causa delle discriminazioni che subisce; chi semplicemente non è interessato alla scuola in cui viene iscritto: «Ho conosciuto un ragazzo che pesava 40 chili – ricorda un altro operatore – doveva frequentare una scuola per muratori quando lui non ne voleva sapere di fare questo mestiere».

L’accertamento dell’età

Ad aggravare il quadro, si sono aggiunte le recenti decisioni del Governo Meloni. «Per quanto riguarda l’accertamento dell’età ci sono state delle involuzioni – racconta l’avvocata Nazzarena Zorzella dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione – Dal 2017 in poi, infatti, era stata superata la tecnica della radiografia del polso, che noi abbiamo sempre contestato, perché si basa su modelli statistici tipici di ragazzi occidentali, che hanno una conformazione fisica diversa da quella di un ragazzino africano, asiatico o sudamericano». Per questo la “Legge Zampa” del 2017 ha individuato un sistema multi-disciplinare che prevede accertamenti radiologici – non solo del polso – ma anche indagini di tipo psicologico o inerenti alla biografia dell’individuo. Eppure, l’ultimo decreto-legge non solo ha reintrodotto la radiografia del polso (per accelerare le procedure) ma, a oggi, i ragazzi hanno solo cinque giorni per poter impugnare il provvedimento di respingimento. Va da sé che si tratta di un tempo troppo breve, soprattutto se si considera che i ragazzi spesso sono inconsapevoli dei propri diritti e del sistema legislativo italiano.

Gli operatori sociali

Non sono solo i ragazzi a subire i limiti dei sistemi di accoglienza; anche gli operatori sociali, infatti,  vivono una situazione di estrema fragilità e ingiustizia. Molti di loro preferiscono non parlare, mentre altri chiedono di restare anonimi perché le aziende o le cooperative per cui lavorano impongono il silenzio, data la forte tensione politica sul tema. Qualcuno di loro, però, racconta di turni di dieci o dodici ore, per paghe da 1.200 euro al mese; e, soprattutto, racconta dello stress psicologico che in contesti del genere si può accumulare.  A uno di loro, lavorando solo la notte, è stata addirittura negata la possibilità di  partecipare alle riunioni settimanali; non aveva il diritto, dunque, di riferire tutto ciò che accadeva  durante i turni notturni, quando spesso si trattava di episodi anche molto gravi.

 

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L'articolo è stato pubblicato sul numero 10 del "Quindici", uscito il 02/11/2023.