Scuola

Da anni tra le scuole bolognesi non si assisteva a un simile fermento; da fine marzo, otto tra licei e istituti professionali sono stati occupati per denunciare il disagio psicologico, che nasce già in famiglia e opprime alunne e alunni, non solo a scuola. Sostituire i voti non sembra una soluzione efficace secondo uno studente, alcuni insegnanti e una psicologa.

 

«Ma non vedo più nessuno che si incazza, tra tutti gli assuefatti della nuova razza», cantava Giorgio Gaber nel 2001; eppure, stando alla scia di occupazioni - in totale otto, tra i quali l’istituto professionale Aldrovandi-Rubbiani, gli istituti di istruzione superiore Pacinotti e Da Vinci, i licei Minghetti, Copernico, Sabin, Laura Bassi e Arcangeli -  che ha attraversato questi ultimi due mesi, pare che tra le scuole bolognesi l’aria sia cambiata. Infatti, se ci si fermasse un istante per ascoltare, si avrebbe la percezione che ognuna di queste occupazioni vada ben oltre i confini degli istituti chiusi con i lucchetti. Ma che si riferisca piuttosto a coloro che la scuola hanno smesso di frequentarla da un po’, a chi è fuori che, più o meno consapevolmente, detta le regole della società, dove i ragazzi vivranno il loro futuro. Regole che a quanto pare stanno strette agli studenti e alle studentesse degli istituti occupati.

«La nostra occupazione ha come fine quello di denunciare un modello d’istruzione che ci distrugge». Si apre infatti così il manifesto con cui il collettivo del liceo Copernico ha cercato di dar voce alle esigenze delle ragazze e dei ragazzi, “denunciando il disagio psicologico subito all’interno delle mura scolastiche; il classismo che domina l’attuale visione di scuola; la mancanza di fondi dedicati all’istruzione e lo sfruttamento su cui si basa il modello dell’alternanza scuola-lavoro”, ricordando Lorenzo Parelli, deceduto nel 2021 mentre svolgeva lo stage presso un’azienda metalmeccanica; Giuseppe Lenoci, che fu vittima di un’incidente stradale nel febbraio 2022 nelle ore di tirocinio scolastico e Giuliano De Seta, rimasto schiacciato e ucciso da uno stampo d’acciaio pochi mesi fa sempre durante un tirocinio scolastico.

Eppure queste parole non dovrebbero risultare nuove. Sono le stesse pronunciate dalle tre ragazze neolaureate alla cerimonia della consegna dei diplomi alla Normale di Pisa nel 2021; o quelle di Alessandra De Fazio alla più recente cerimonia d’apertura dell’anno accademico dell’Università di Ferrara davanti al presidente Mattarella e prima ancora di Emma Ruzzon durante l’inaugurazione a Padova; o ancora quelle nelle lettere d’addio di studenti e studentesse suicidi.

La pressione psicologica subita a scuola deriva infatti «in minima parte dai comportamenti dei singoli professori all'interno del contesto scolastico - ci ha raccontato Filippo Bucciarelli, 18 anni, studente del liceo Copernico - è una questione di ampio respiro e strettamente legata alla società in sé». Anche secondo Nicola Cenni, professore di Matematica e Fisica nello stesso liceo, le cause del disagio giovanile sono molteplici: «Le aspettative nascono già nella famiglia e talvolta non sono rese esplicite, nel senso che spesso, anche inconsciamente, i genitori esercitano pressione sui figli». A questo si aggiunge la società, «che chiede di essere sempre bravi - spiega Cenni - i ragazzi e le ragazze sono spinti a bruciare le tappe, molti vogliono avere successo, soprattutto economico, subito». Questa rincorsa verso il massimo risultato nel minimo tempo, unita alle aspettative soffocanti, può portare un’alunna a «pensare che non vale niente, ad andare in crisi, anche quando arriva un’insufficienza non grave», conclude il professore.

Di questo è convinta anche Federica Modena, psicologa e psicoterapeuta, con cui abbiamo cercato di comprendere meglio il disagio psicologico denunciato dai giovani. Se da una parte questa condizione è riconducibile al periodo di chiusura sperimentato durante il lockdown, dall’altra è evidente che in primo piano ci sia la contestazione di una società che gli adulti hanno contribuito a creare. «Abbiamo passato il periodo del Covid dicendo che ne saremmo usciti più forti e uniti; che insieme avremmo costruito una società migliore - ha affermato la psicologa - invece siamo tornati in una situazione ancora più stressante, dominata dalla prestazione e dalla dimostrazione» e ancora più angosciati dal presunto tempo perso durante il lockdown.

Il Covid, dunque, ha aggiunto nuove difficoltà sulle spalle di adolescenti alle prese con il duro compito di trovare un proprio spazio nel mondo, ci ha spiegato Modena. Se per esempio, qualche anno fa, i casi di hikikomori, ovvero di ragazze e ragazzi che evitano ogni tipo di contatto con il mondo esterno, erano abbastanza contenuti, adesso sono esplosi. Al tempo stesso sono aumentati i casi di disturbo del comportamento alimentare, di autolesionismo, attacchi di ansia e in generale si registra un forte sentimento di apatia rispetto a tutti gli ambiti sociali, che si manifesta attraverso la difficoltà a fronteggiare i piccoli compiti di sviluppo.

E se cambiasse la modalità di valutazione, quindi se i giudizi sostituissero i voti? Non sembra una soluzione efficace né per la comunità studentesca, né per il corpo insegnante. «Siamo favorevoli alla sperimentazione - dicono dal collettivo Copernico - ma rimane comunque la convinzione che non sia solo una questione legata alla valutazione, ma un problema sociale». Adottare il sistema dei giudizi standardizzati al posto dei voti, per il professor Cenni, è semplicemente un «modo per nascondere la polvere sotto il tappeto». «Io sono una persona molto pratica - prosegue Cenni - se dovessi assegnare un giudizio mi creerei un database, facendo corrispondere a ciascun giudizio un voto». E la pressione percepita dalle studentesse e dagli studenti rimarrebbe la stessa. «Dovrebbe essere obbligo morale degli insegnanti spiegare perché quel brutto voto è stato assegnato», dice il professore.

È quello di cui parla la psicologa Modena, secondo cui dovrebbe essere responsabilità del singolo docente instaurare un rapporto fondato in primo luogo sul dialogo. Cercare quindi di andare più a fondo e chiedersi il perché di un’insufficienza, che quasi mai dipende esclusivamente dal poco studio. Il problema, dunque, non risiede nel voto in sé, ma in ciò che quel voto rappresenta e soprattutto nell’interpretazione dei ragazzi e delle ragazze, che spesso tendono a compararsi con i loro coetanei.

Inoltre, secondo Paola Simboli, professoressa di Latino e Greco al liceo Minghetti, la maggior parte della pressione proviene proprio dalle famiglie. «Gli studenti e le studentesse - spiega la professoressa - non sembrano intimoriti dal corpo docente, ma piuttosto dai genitori che in alcuni casi tendono a ingigantire anche un minimo insuccesso dei figli». «Eppure - ricorda la professoressa - evitare un insuccesso nella vita è impossibile; per questo è importante acquisire le armi per superarlo piuttosto che evitarlo».

Ma cosa si può fare per arginare il problema del disagio psicologico? Innanzitutto, fornire «un servizio psicologico gratuito o erogato sulla base del reddito familiare», propone Bucciarelli. Perché al momento uno sportello psicologo al Copernico c’è, ma per gli alunni non basta. Ѐ necessario poi risolvere uno dei problemi alla base di questo servizio, ovvero la mancanza di una vera e propria strutturazione. «Noi non siamo una figura vera e propria - dice la psicologa Modena - ma ogni anno ci sono dei bandi a cui i liberi professionisti partecipano. Se vincono viene assegnato loro un pacchetto di ore quasi sempre insufficiente». È quasi impossibile, dunque, che una psicologa segua una scuola per più anni, con la conseguenza di un servizio frammentario e poco efficace. Anche per quanto riguarda le ore messe a disposizione, non esistono vere e proprie regole, e molto dipende dalla intraprendenza e sensibilità della singola figura professionale.

È fondamentale poi aumentare il confronto con i professori, «sia a livello collettivo, come avvenuto durante l'occupazione, sia a livello di singoli studenti con il corpo docente», spiega lo studente. Della stessa opinione è il professor Cenni: «bisogna cercare il dialogo con i ragazzi, nel rispetto delle figure».

In generale, sarebbe necessario ripensare il modello di insegnamento, che per decenni è rimasto invariato. Come ha sottolineato la psicologa, il livello di formazione di chi frequenta la scuola oggi non è paragonabile a quello di chi la frequentava qualche anno fa. Questo, secondo la psicologa, è dovuto prevalentemente dagli anni di didattica a distanza che non hanno permesso agli studenti e alle studentesse di solidificare le loro conoscenze e oggi si trovano a fare i conti con programmi che difficilmente riescono a sostenere. Dello stesso parere è la professoressa Simboli, che però ritiene si tratti di un processo più antico del Covid, causato soprattutto dalla mole di stimoli a cui sono sottoposti costantemente ragazzi e ragazze, insomma, una conseguenza dell’evoluzione della società.

 

Nell'immagine: alunni e alunne al Minghetti occupato. Foto scattata da un'occupante

Questo articolo è già stato pubblicato sul numero 6 del Quindici il 28 aprile 2023