conflitti

Oakland, Seattle, Barcellona, Genova, Napoli, nelle ultime settimane diventate cartina tornasole di piccole, ma grandi resistenze. «Non vogliamo essere complici della guerra» gridano i portuali di tutto il mondo indicando i container pieni di armi in viaggio verso Israele, mentre a Gaza - secondo le stime dell’Onu - sono morte 15mila persone. E così con un grido che fa eco a migliaia di altri, lavoratrici e lavoratori con i loro corpi hanno bloccato il varco di San Benigno. Al loro fianco movimenti umanitari e antimilitaristi ma anche i sindacati Usb e Si Cobas. «In tutti i principali hub della logistica – dicono dai vertici dell’organizzazione - dall’interporto di Bologna ai magazzini della provincia di Milano, Pavia, Brescia, Novara, Piacenza, Roma e tante altre città, dai mercati generali di Torino alle Poste di Perugia, i lavoratori hanno presidiato i cancelli dei magazzini con messaggi di solidarietà alle vittime di Gaza e ai sindacati palestinesi che con un appello hanno sollecitato un’iniziativa operaia nei paesi occidentali contro l’aggressione sionista». Cori da Boston ammoniscono: «Biden, Biden non puoi nasconderti, hai firmato per un genocidio».

Un cartellone nero si alza da Kuala Lampur: “Siamo tutti al-Qassam”. Da 50 giorni le piazze di tutto il mondo come maree alterne si riempiono di striscioni, canti, interventi, balli e bandiere. A Bologna dal 22 ottobre ottomila, poi cinquemila e poi di nuovo quasi 10mila persone hanno invaso le vie principali per chiedere il cessate il fuoco. E come una nenia di tanto in tanto qualcuno rispolvera quel brano composto da Umberto Fiori nel 1973, allora un giovane militante del Movimento studentesco milanese: «Abbiamo alzato il rosso, il verde, il bianco e il nero, stretto in pugno la bandiera: i colori di Al Fatah. Abbiamo alzato la bandiera partigiana della rossa Palestina accanto a quella del Vietnam!».

Le presenze bolognesi sono tuttavia scarne in confronto ai 60mila manifestanti che c’erano in Piazza Maggiore il 30 marzo 2003. Quando Don Ciotti denunciava le atrocità in Iraq e Cgil, Cisl e Uil avevano chiamato in piazza le bandiere della pace. Sempre lì il 13 ottobre di quest’anno il segretario bolognese della Confederazione: «Siamo ostaggi anche del clima di guerra permanente, un clima pesante che attraversa i mezzi di comunicazione, un clima che silenzia le ragioni della società civile, dei pacifisti, delle opposizioni e del movimento dei lavoratori, in Israele, in Palestina ma anche in Europa.

Più di vent’anni dopo l’11 settembre 2001 siamo di nuovo in piazza con le ragioni della pace». Ma la prima grande manifestazione condivisa e interreligiosa ci sarà il 5 dicembre con il presidente della Comunità ebraica Daniele De Paz, islamica Yassine Lafram e l’arcivescovo Matteo Zuppi. A quasi due mesi dall’inizio delle stragi, società civile e religiosa si riuniranno sotto le due Torri. Un ritardo che Karim, sindacalista di 36 anni, individua «nella difficoltà in cui la questione Gaza ha gettato tutti i democratici e le sinistre. La causa palestinese ha smascherato tutte le “democrazie” internazionali». Nel frattempo, il 12 novembre dalle scalette illuminate giallo ocra dirimpetto a San Petronio si gridava: «Siamo qua per supportarli e dirgli che ci siamo». Tra i tavoli dei bar sotto al portico, un attivista si premura di scandire bene tutte le parole, recitandole in inglese così che il messaggio arrivi a più persone possibili. «E Inshallah, prima o poi, la Palestina sarà libera. E andremo tutti lì per festeggiare insieme perché forse ora non ci sentono, non c’è internet, ma possono sentire la nostra energia, possono sentire il nostro cuore e le nostre preghiere per loro».

Durante i tre cortei che hanno sfilato tra rabbia e sentimento di comunione tra le file c’è sempre qualcuno al telefono, in videochiamata. Una donna nel tentativo di sovrastare i cori e il brusio generale urla verso l’apparecchio: «Siamo qui per voi!». Chissà che non fosse un parente, un amico, un conoscente bloccato a Gaza sotto gli incessanti bombardamenti. Senza acqua, senza elettricità e spesso senza internet, come viene ricordato più volte negli interventi durante i cortei. Le tre principali manifestazioni tra ottobre e novembre hanno visto una grande presenza delle seconde generazioni di famiglie provenienti dal mondo arabo. Ed ecco che al fianco di quella palestinese sventolano bandiere di Marocco, Bangladesh, Tunisia, Egitto, Pakistan. E librandosi in aria in una coreografia casuale danzano al ritmo delle parole di Fiori: «Al di là di questo mare c’è un popolo fratello: ogni lotta aiuta un altra lotta. Coi popoli in rivolta si muove oggi la storia».

Ogni tanto però i cori si prendono una pausa e al microfono la voce è una. Molti degli interventi durante tutti e tre i cortei sono di Karim. Per i Si Cobas infatti lo sciopero di venerdì 17 - fortemente osteggiato dal ministro Matteo Salvini - è stato anche un momento di rivendicazione e solidarietà con i sindacati palestinesi. «Tanti iscritti hanno origini arabe e sono molto solidali con la questione a Gaza - spiega Karim - la maggior parte hanno subito e vissuto esperienze di colonialismo. Sanno cosa sono la fame, la povertà e la distruzione. Per molte persone marocchine è impossibile guardare le immagini dei bombardamenti e non pensare ai palazzi distrutti dal terremoto in Marocco». Secondo Karim, non serve un discorso politico per far comprendere che la questione sia prima di tutto umanitaria. Dello stesso avviso è Rahma, 28enne nata a Bologna di origini tunisine: «Da persona che lavora a stretto contatto con il mondo della sanità, so per certo che a Gaza è un disastro. Non ci sono medicine, né gli strumenti o l’ossigeno, spesso nemmeno l’elettricità. Gli interventi, anche i più importanti, vengono fatti senza anestesia. I pazienti, già traumatizzati dalla situazione, vengono sottoposti a chirurgia da svegli. Unico “anestetizzante” spesso è il Corano: qualcuno dell’equipe o chi sta subendo l’intervento recita passi del testo sacro per distrarsi e concentrarsi solo sulle parole».

A spingere le persone in piazza secondo Karim è anche «la sensazione di fratellanza». La lingua araba è un grande collante che avvicina moltissimi «fa pensare “questo parla come me, ci capiamo”». Ma quale che sia l’idioma alle manifestazioni non è prioritario. Il linguaggio si sposta su un terreno comune e universale: il bisogno di fare «qualcosa, pur che piccola che sia per la pace», chiosa Rahma. A Bologna - dopo la prima manifestazione del 22 ottobre - a far scalpore non sono state le oltre ottomila persone e le richieste di pace, ma un’azione di una manciata di secondi. Facciamo un passo indietro. Dieci centimetri di stoffa bruciano. Bianchi e celesti, quei pezzetti che si staccano li porta via il vento. Un accendino rosso insiste sul corpo del reato. La bandiera di Isreaele va a fuoco tra tre o quattro paia di mani. In quei giorni, come in molti altri, c’è chi l’assedio di Gaza lo vive da 75 anni e chi specialmente da ottobre non può far altro che guardare con apprensione a quanto accade dall’altra parte del Mediterraneo. Mentre l’Europa si blindava e l’Italia revocava Schengen, serrando i confini con la Slovenia, le piazze e le strade delle principali città gridavano e gridano «Palestina libera!». Quel giorno in migliaia lo hanno fatto partendo da piazza dell’Unità e sfondando il blocco delle forze dell’ordine, lanciandosi in una corsa liberatoria in via Indipendenza, verso il cuore della città: piazza Maggiore. Ma dopo quel gesto non tarda ad arrivare la condanna della Comunità ebraica di Bologna: «Il corteo così fa il gioco di Hamas», denuncia il presidente Daniele De Paz. Il movimento Giovani e Palestina (GeP), principale organizzatore della manifestazione, risponde a tono: «Bruciare la bandiera israeliana, può piacere o non piacere, ma in nessun caso può essere tacciato come un gesto antisemita. A cuore aperto ci rivolgiamo alla Comunità ebraica di Bologna invitandola a prendere l’esempio dalle centinaia di fratelli ebrei che qualche giorno fa hanno occupato il congresso degli Stati Uniti gridando “non in mio nome” rispetto al massacro che Israele sta effettuando sulla popolazione di Gaza».

Nel frattempo invece a Londra il 26 novembre un manifestante pro-Israele ha urlato contro un cospicuo gruppo di partecipanti al corteo pro-Palestina: «Judenrat!». Un insulto che affonda le sue radici da un’istituzione risalente all’era nazista. La traduzione letterale è “Consiglio ebraico”, organo che - nei territori occupati dai nazisti - collaborava con il regine nelle fasi di sterminio e rastrellamento a danno di altri ebrei. Anche in Italia, sempre durante una manifestazione, questa volta in occasione della giornata mondiale contro la violenza di genere, c’è stata una parentesi di furia rivolta - per “ironia” - proprio verso una donna. «Durante la manifestazione a Roma una ragazza ha sventolato la bandiera palestinese in segno di denuncia e ribellione per tutte le donne stuprate, uccise e violate in 75 anni di occupazione sionista - racconta Rahma -. Un’altra partecipante l’ha picchiata dopo averle chiesto “Ma tu condanni Hamas?”. Domanda quanto mai fuori luogo, era la giornata contro la violenza di genere. Questo - commenta amaramente - vuol dire che ci sono ancora donne di serie A e donne di serie B. Quando la questione iraniana era al centro dell’opinione pubblica le donne occidentali si tagliavano i capelli in segno di solidarietà. La violenza è violenza e nessuna donna al mondo dovrebbe subirla». E vale «anche per le donne israeliane stuprate da Hamas», come sostengono con solidarietà le attiviste di Non Una Di Meno, associazione transfemminista organizzatrice del corteo di Roma: «La guerra è l’espressione più alta del patriarcato. Dove lo stupro viene usato per il controllo. E questo è stato certamente fatto da Hamas, ma anche da altri eserciti».

Ma fortunatamente a predominare nelle piazze è un festoso senso di pace e libertà. A sfilare per le vie del centro al fianco delle seconde generazioni, collettivi studenteschi, famiglie, operai e operaie, anziani: tra quelle ottomila persone c’era un pezzo di mondo che solidale marcia per dare una voce alle migliaia che ora sono silenziate. A dare un volto e un nome alla popolazione gazawi sono i giornalisti locali.

Altra tragica parentesi di questo conflitto che spacca il mondo in due: dal 7 ottobre, secondo il “Commitee to protect journalists”, sotto le bombe avrebbero perso la vita 57 giornalisti, 19 sarebbero stati arrestati, mentre 11 feriti e di 3 non hanno più notizie. In Vietnam ne morirono 63, durante il secondo conflitto mondiale 69. E mentre i giornalisti nativi - unica fonte di informazione diretta - vengono decimati, a fargli da megafono sono le piazze. «Per me manifestare significa dire “Ci sono”. Anche se siamo lontani - dice Rahma - in Oriente hanno i social, possono sentirci e vederci».

Quella della Palestina, nel mondo arabo, rientra in una trama condivisa di storie «che ci raccontano sin da piccoli, come in Italia viene insegnato Giolitti o le tragedie della seconda guerra mondiale. Io scendo in piazza come mio padre prima di me e come i miei nonni hanno fatto dopo il 1948». Nel frattempo Karim da sindacalista sogna una ribellione internazionale: «Se operai e operaie si mobilitassero tutti insieme per il mondo sarebbe la fine. Se a livello globale i lavoratori incrociassero le braccia anche solo due giorni, il livello dello scontro si alzerebbe» e ad alzarle - le braccia - «sarebbero i governi. Scioperare è il mezzo più importante che abbiamo, a Gaza non possono farlo, noi sì». Ma tra tutte le storie di distruzione che riecheggiano da quella striscia martoriata che affaccia sul Mediterraneo, ce ne sono anche alcune di speranza. Rahma è una psicologa, per questo è in contatto con alcuni colleghi che attualmente si trovano sotto i bombardamenti. Del centro in cui lavora Mohamed non restano che macerie, ma con resilienza lui, padre di tre figli, «mette in atto i suoi studi e le sue conoscenze per alleviare una situazione tanto critica, in particolare per dei bambini». Queste parole la collega bolognese le urla in piazza Maggiore. «Per distrarre i figli dai costanti bombardamenti li impegna in attività ludiche. Focalizzando la loro attenzione su un disegno o su un gioco da fare insieme. E poi si fa forza, perchè anche lui è terrorizzato, e dice “non è niente, presto passerà. Presto passerà».

 

Articolo uscito su Quindici, la nostra rivista bimensile, il 30 novembre. 

 

Corteo pro Palestina del 18 novembre in via Irnerio. Foto di Chiara Putignano