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«Mi sembrava incredibile avere la possibilità di sfogliare libri non censurati o trovarmi davanti agli occhi pubblicità enormi di intimo». Azadè Oghbatalab oggi ha 44 anni, è una decoratrice d’interni e podcaster. Quando arriva a Bologna dall’Iran per studiare cinema ne ha appena venticinque. Tutto quello che le sembra «incredibile» lo racconta sui social agli iraniani. Ma, negli ultimi tempi, inverte la rotta della narrazione e sul suo profilo riporta i crimini del regime iraniano. Ha curato la mostra, assieme ad altre artiste iraniane, “Cartoline dall’Iran” per Art City e Arte Fiera; domenica scorsa ha introdotto l’opera “La serva padrona. Donna, vita, libertà” al Teatro Mazzacorati e domani, in occasione dell’8 marzo, parlerà alle ragazze e ai ragazzi del liceo Minghetti.

 

Oghbatalab, cosa la lega alle Due Torri?

«Bologna e i bolognesi mi hanno dato la possibilità di crescere, di amare, di essere amata e sentirmi sicura e libera, in un luogo che non era la mia patria ma lo è diventata. Sono grata di vivere qui, tra arte e cultura». 

 

Come racconta l’Italia sui social?

«Ho iniziato sei anni fa, partendo da alcune tradizioni del paese e spingendomi fino al Coronavirus e alla condizione delle donne». 

 

Cosa ha raccontato delle donne?

«Il loro corpo, per esempio. Ho pubblicato foto di donne in bikini, libere, che non si vergognano dei chili di troppo o di qualche smagliatura. Le donne iraniane soffrono molto il body-shaming. In Iran le operazioni di chirurgia estetiche sono tantissime, Teheran è una delle capitali mondiali della chirurgia estetica».

 

E come dovrebbe essere la “donna ideale”?

«Come la vogliono gli uomini: senza peli, innanzitutto. Con un naso perfetto e labbra carnose, sono tantissime le ragazze, anche giovanissime, che ricorrono alla rinoplastica, ai filler e al botulino».

 

Cosa le dicono i suoi amici che vivono in Iran?

«Quando giri per strada non capisci chi stia con il regime e chi no, cammini con il terrore che una manganellata ti colpisca a ogni passo».

 

Quando ha visto l’ultima volta l’Iran?

«Nel 2015, mia figlia aveva nove mesi. Dovevo allattarla, ero in aeroporto e mi sono coperta con un foulard. Una guardiana del regime mi ha spinto in una stanza con altre donne che stavano pregando. È come se, qui da noi, ti proibissero di allattare in pubblico e ti mandassero a farlo in chiesa. Dopo un mese Nazanin Zaghari-Ratcliffe è stata arrestata quando sua figlia aveva 18 mesi. Come me, Nazanin ha il doppio passaporto. Ed è rimasta in carcere per sei anni con l’accusa di spionaggio per conto di Londra».

 

Pensa di ritornarci prima o poi?

«Quando mia figlia sarà più grande e riuscirà a capire meglio le cose».

 

Ha dei parenti in Iran?

«Mia madre, mio padre, mio fratello, i miei amici più cari. Ma piano piano stanno uscendo tutti dal paese».

 

Qual è la speranza concreta per l’Iran?
«Viviamo soltanto per veder cadere questo governo. Per vedere la fine del regime e l’inizio di un’era democratica». 

 

Nell'immagine Azadè Oghbatalab. Foto fornita dall'intervistata