Arte antica

Da luogo fisico, nel passare degli anni la saga di Pompei si è mutata in simbolo. Per rimanere colpiti dalla tragedia di natura vulcanica che travolse la città e dintorni durante l’autunno del 79 d.C. non è strettamente necessario passeggiare all’interno dei suoi brulicanti centri archeologici. Questo aiuta non poco, certo, ma non basta per comprendere l’immensa realtà fantasma da cui ci si ritrova circondati — fra templi, ville e colonnate perfettamente preservate.

Sulle vite quotidiane delle oltre 30.000 persone che un tempo abitavano sulle pendici del Vesuvio, sappiamo poco e rimangono ancora fin troppe domande. Migliaia di racconti occultati dalla lava e dalla storia. Ecco, la mostra “I Pittori di Pompei” esposta al Museo civico archeologico nasce con lo scopo di rispondere ad alcune di queste domande attraverso i pictores, gli omonimi pittori del territorio.

L’esposizione, frutto della collaborazione culturale e scientifica tra Comune, Museo archeologico nazionale di Napoli e prodotta da MondoMostre, ha visto il prestito di oltre 100 opere di epoca romana appartenenti alla collezione del museo partenopeo, custode della più grande pinacoteca dell’antichità al mondo. Dal settanta all’ottanta per cento di queste non sono normalmente esposte, ma provengono invece dai magazzini, e alcune sono state rese disponibili al pubblico per la prima volta. Gli affreschi sono integrati da una selezione di oggetti di vita quotidiana.

Un’idea che nasce con il curatore della mostra Mario Grimaldi: «Davanti a queste opere le persone mi chiedevano spesso come mai non c’era una firma — nella nostra concezione moderna un’artista si autodetermina con la firma, e noi di conseguenza gli attribuiamo un valore — in realtà nel caso dei pictores una firma c’è, ma non come la immaginiamo. Non la si trova sotto forma di un nome e cognome, bensì nello stile artistico. C’era una volontà da parte del pittore di farsi riconoscere, ma non in maniera esplicita, un dato che tende a capovolgere le nostre sensazioni moderne. Noi li guardiamo come Michelangelo e Raffaello, ma nell’età in cui vivono non lo erano» precisa Grimaldi, «sono piuttosto come l’imbianchino che ci viene a lavorare in casa. In epoca romana sia i ricchi che i poveri avrebbero potuto avere la casa decorata, cambiava ovviamente la grandezza delle opere, la qualità del colore e il maestro che si poteva pagare».

Una particolare attenzione ai pictores e alle opere che realizzavano era già stata proposta negli anni ’50 e ’60, ma sopratutto da un punto di vista storico artistico, in un momento dove la storia dell’arte e l’archeologia viaggiavano su due binari completamente diversi. «Era un’analisi iper-specialistica, con ricerche dettagliate su pigmenti e altri elementi artistici che finivano per allontanare il prodotto dal contesto sociale. Personalmente ho cercato di recuperare quest’elemento, e di interrogarmi sul ruolo effettivo che questi pittori avevano all’interno della loro società.

«Com’erano visti dai loro contemporanei? Quali erano i loro modelli di ispirazione?».

Qui, afferma Grimaldi, serve l’archeologia, che tramite una forte conoscenza del contesto sociale e della provenienza di queste opere può donarci una visione più completa. «Io posso capire quanti pittori lavoravano in una casa, se un pittore lavorava in altre case della sua stessa insula (blocco abitativo) o in altri quartieri della stessa città. Poi però devo capire il tempo che ci ha lavorato, le tecniche di esecuzione e i colori utilizzati, fino ad arrivare al fattore socioeconomico. Sicuramente non stiamo parlando di pittori schiavi ma di uomini liberi che lavoravano a pagamento, muniti di contratti regolamentati con i proprietari delle case che decoravano. Quello che spero di aver trasmesso è che dietro questi meravigliosi affreschi che possiamo ammirare c’è quindi un mondo fatto di persone, idee e stati d’animo. Fanno da specchio a un’intera civiltà».

Il reale rapporto tra uomo, artigiano e società rappresenta dunque l’inedito capitolo da esplorare in questa mostra, che accoglie i visitatori con la ricostruzione di interi ambienti pompeiani, a colori vivaci e su scala 1:1. Questa scelta architettonica, spiega Grimaldi, è essenziale per immergersi nel contesto sociale da lui citato, esponendo in modo autentico la sinergia tra spazio, luce e decorazione a cui i pictores dovevano rendere conto.

La speranza è che aver visionato le opere dentro accurati rifacimenti dei loro ambienti originali, come nel caso della domus (casa) di Meleagro, porti il visitatore a contemplarle in maniera più sincera rispetto a un regolare percorso da collezione permanente.

Una mostra che invita un pubblico di tutte le età a partecipare, sdoganando il senso del vecchio che solitamente si affianca alle mostre archeologiche. Lo si nota già da subito con l’audio guida messa a disposizione per i più piccoli — impostata su misura alle loro esigenze — e poi percorrendo il sentiero dell’esposizione, dove l’occhio cade su numerosi simpatici giovani romani di cartone ritagliato che accompagnano la visita.

«Che la mostra sia facilmente accessibile è la nostra soddisfazione» conferma Federica Guidi, responsabile per il museo della collaborazione al progetto scientifico (assieme a Marinella Marchesi) e della comunicazione. «Tutto nasce dal fatto che il nostro museo vanta una pluriennale tradizione di attenzioni alle esigenze e alle curiosità dei più giovani. Oltre alla mostra organizziamo visite guidate, attività di laboratorio e didattica con le scuole, fino alle superiori. Abbiamo persino un gioco a ruoli dove i ragazzi e le ragazze possono capire cos’è un pictor, con un lavoro che gli viene assegnato da creare per una domus. Non trascuriamo nemmeno il pubblico adulto: tramite una convenzione con BAUadvisor, offriamo un servizio di dog sitter così i possibili visitatori non devono separarsi dai propri cani». In questo modo ogni giorno la mostra è piena, sia di adulti che di giovani, e all’uscita il pubblico ne rimane entusiasta. «Splendida, comprensibile e didatticamente efficace» la definisce Marco, 55 anni e storico di filosofia medievale in visita da Ferrara. «Oltre agli affreschi eccezionali, mi hanno molto colpito le raffigurazioni degli strumenti da scrivere, ci rivedo dei collegamenti con la mia area specialistica. A scuola ci insegnano a dividere la storia in diversi compartimenti ben separati, ma in realtà non è così. La storia è un flusso continuo e interconnesso».

La scelta di Bologna come sede della mostra non è stata per nulla casuale. «Per me Bologna rappresenta un punto cardine in grado di connettere il nord e il centro sud dell’Italia» indica Grimaldi, «non è solo un crocevia, ma una vera e propria cerniera sociale che permette a un ampio pubblico di visionare sia nostro operato che il nostro patrimonio storico culturale».

Anche se la mostra non è ancora conclusa, si dichiara già ampiamente soddisfatto del risultato finale. «I numeri di visitatori che riceviamo ci rendono felici, ma un curatore è già lieto che un progetto come questo si sia realizzato. Ho iniziato ogni mia visita guidata specificando che l’opera più importante esposta qui sono i nomi di chi ha aiutato a renderla reale. Tante persone ci hanno creduto, e altrettante sono molto contente del risultato raggiunto. Questo per me vale più di tutto».

 

Nell'immagine: Filosofo con Macedonia e Persia. Foto: Museo Civico Archeologico