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Abbiamo intervistato Lorenzo Pezzani, 40 anni, che da pochi mesi è tornato in Italia dopo aver passato 14 anni a Londra.

Da quanto tempo insegna a Bologna e di cosa si occupa?

«Mi sono trasferito a ottobre dell’anno scorso, insegno al Dipartimento delle Arti (il Dar) e sono rientrato come geografo, ma in realtà mi sono sempre occupato di migrazioni e confini. Infatti faccio un lavoro che si avvicina molto al giornalismo investigativo e al mondo delle arti visive».

Ha insegnato anche per molti anni a Londra. Di cosa si occupava?

«Mi sono trasferito nel 2008 per studi e nel 2016 sono stato assunto come professore al Goldsmith College dell’Università di Londra e mi occupavo degli stessi temi. Sono stato a Londra 14 anni».

Come mai ha deciso di tornare in Italia?

«Hanno inciso varie motivazioni anche personali. Sia io che la mia compagnia siamo italiani e abbiamo sempre avuto l’idea di tornare. Poi ho vinto un Grant europeo dell’Erc ("Europe Research Council"), un finanziamento di ricerca per cinque anni. All’epoca, però, la Gran Bretagna stava ancora negoziando, dopo la Brexit, con l’Erc sul suo status all’interno dell’istituto di ricerca. Quindi mi sono trovato davanti alla scelta di rinunciare al Grant e rimanere a Londra o spostarlo in uno stato che facesse parte dell’Erc. È stata un po’ l’occasione per fare questo passo».

Come si trova a Bologna? 

«Nel complesso sono contento e soddisfatto. Un po’ per ragioni personali che hanno a che fare con il tipo di vita e la possibilità di vivere in una città più piccola e più vivibile rispetto a Londra. Anche all’università mi sto trovando bene. Certo poi è vero che ci sono cose che stanno cambiando e speriamo cambino ancora di più».

Per esempio?

«Una delle cose che preferivo dell’insegnamento a Londra era il fatto che tra colleghi e studenti c’era una grande diversità di esperienze e background. Trovarsi in una classe con venti alunni dove ognuno veniva da parti diverse del mondo è stata un’esperienza molto arricchente. A Bologna e in Italia questo non accade ancora. Forse è uno dei limiti più grandi nonostante Bologna sia avanti sotto questo punto di vista. Poi c’è tutta una struttura gerarchica anche all’interno dell’Università con delle dinamiche spesso non virtuose. Ma anche da quel punto di vista vedo un po’ di cambiamento».

E crede che sia questa impostazione che spinge ricercatori e ricercatrici a andarsene?

«Sì, credo che uno dei problemi principali riguardi proprio questa struttura abbastanza gerarchica e impantanata, molto piccola e fatta di poche persone con intorno un mare di precariato e situazioni difficili: piccoli contratti pagati male con condizioni di vero e proprio sfruttamento. Credo che questo sia uno dei problemi principali. Però ci sono tanti segnali di cambiamento e tante persone che stanno tornando dall’estero e penso che questo sia un segnale positivo».

Lei pensa che il ritorno di ricercatori e ricercatrici possa determinare dei cambiamenti anche per quanto riguarda i rapporti con l’estero e il modo di fare ricerca?

«Spero di sì, anche se personalmente sono cosciente di tornare in un ambiente che ha già delle reti internazionali importanti e dove si fanno lavori riconosciuti internazionalmente. Però sicuramente spero che questo ritorno in Italia possa portare anche altri modi di fare ricerca, insegnare e stare all’interno dell’Accademia».

Secondo lei, quanto ha inciso la Brexit sulla decisione di tornare in Italia di molti e molte?

«Sicuramente ha avuto un ruolo importante, per esempio nel mio caso specifico. Però più in generale il problema è che c’è stato un attacco nei confronti del mondo accademico. L’aumento delle tasse scolastiche, e la trasformazione delle università in aziende che devono autofinanziarsi, ha leso molto soprattutto alcune università e certi ambiti. Io per esempio lavoravo in un college abbastanza piccolo dove la maggior parte degli insegnamenti era dedicato alla dimensione umanistica. L’Italia sotto questo punto di vista è, per fortuna, indietro ma anche qui comincia ad avvertirsi questa dimensione».

Lei nasce come architetto, come mai ha deciso di allontanarsi da questo ambito?

«In realtà non lo interpreto come un allontanamento: mi sono laureato in architettura dove ho imparato gli insegnamenti più tradizionali come la progettazione di una casa; però poi mi sono sempre occupato di pratiche spaziali intese in senso più ampio, con una declinazione spesso politica. Nello specifico lo scopo è quello di utilizzare gli strumenti propri della progettazione e modellazione 3D per investigare ed esplorare questioni più ampie anche politiche e scientifiche. Mi sono sempre sentito e mi sento tuttora architetto, ovviamente in una declinazione diversa; anche il progetto Forensic Architecture, che ho contribuito a fondare, è fatto da gente con esperienze professionali di ricerca diverse ma legate al mondo dell’architettura e delle arti visive».

Come questa nuova frontiera del giornalismo può avere un impatto sui temi di giustizia sociale e dei diritti umani. Cosa c’è in più che prima mancava?

«C’è un’attenzione a questioni che hanno a che fare con la rappresentazione, le immagini e lo spazio che offrono una prospettiva diversa su questioni che esistono da tanto tempo e sono state investigate da vari punti di vista».

E questa nuova prospettiva deve ovviamente molto alle nuove tecnologie?

«Sì, sicuramente. In un mondo in cui le immagini proliferano in maniera incontrollata e ognuno d noi riesce a documentare crimini è importante anche trovare dei mezzi nuovi per analizzare, capire e mettere in rete le informazioni. Riuscire a comprendere tutte queste nuove immagini e fonti d’informazioni è fondamentale, altrimenti il rischio è quello che ci sommergano se non organizzate e lette in una certa maniera».

Quindi è una frontiera figlia sia di un avanzamento tecnologico che di una nuova sensibilità?

«Assolutamente, le due cose vanno di pari passo. L’avanzamento tecnologico è inevitabilmente mosso da trasformazioni sociali e politiche molto più profonde. Sono aspetti che vanno insieme e si nutrono l’uno dell’altro».

 

 

 

Nell'immagine Lorenzo Pezzani in una conferenza del 2018. Foto Youtube