Transizione ecologica

L'ingresso del deposito Ferrarese

La carrozzeria di un autobus rosso fiammante con tocchi neri, che luccica sotto il sole invernale, cattura l’attenzione: è un modello intonso, appena immatricolato e pronto per entrare in servizio. «Questo è il nostro fiore all’occhiello, è un veicolo a tecnologia mild hybrid», fa notare Andrea Bottazzi, dirigente tecnico Tper: il progressivo abbandono del diesel è una realtà sempre più concreta. «Si tratta di autobus ibridi elettrici e a metano liquido, che possono accumulare nella batteria circa il venti per cento di energia in fase di decelerazione e frenata, così da prolungare l’autonomia di servizio». 

Abbiamo messo piede in uno dei tre depositi di Tper, tra i più grandi d’Europa: occupa l’area di circa 31 campi da calcio e ospita 420 mezzi della flotta. È superato solo dal deposito della compagnia Emt di Madrid, che può ospitarne fino a 500. Il deposito è nato nel 1992, a seguito della fusione di due precedenti siti di Atc, l’Azienda Trasporti Consorziali di Bologna, collocati in via del Terrapieno e in via Libia. Adesso ci lavorano circa ottanta persone, tra personale di Tper e di ditte terze che operano per conto dell’azienda. Lo sguardo rischia di perdersi tra il rosso e il blu dei bus, che sono ovunque: alcuni a riposo nell’apposito parcheggio, altri in movimento, altri ancora si intravedono nelle officine. Di fronte a noi sorge il Plesso Due, costruito nel 2012: è un grande hangar di colore arancione con il tetto bianco, a volta. Mentre ci avviciniamo passiamo davanti a una delle zone adibite a officina e a zona rifornimento: un operatore armeggia con la pompa mentre un mezzo fa manovra per posizionarsi correttamente. Sulla fiancata campeggia il logo Tpb (Trasporto pubblico di Bologna), il consorzio che eroga effettivamente il servizio di trasporto della città e che è formato da diverse compagnie, tra cui Riccibus, Cosepuri e la stessa Tper, che è il maggiore esponente.

 

                                                                                                       Una veduta dall'alto del deposito Ferrarese

 

Andrea Bottazzi, il nostro Virgilio in questa visita, solleva la mano per indicare un piccolo cancello di ferro, dietro il quale si scorgono tre armadi metallici di colore bruno: «Lì ci sono i compressori del metano: il primo è installato dal 2004, e ora sta per essere sostituito da un modello più nuovo». Bottazzi, ora dirigente tecnico, ha lavorato in Atc dal 1987 e ha visto il deposito Ferrarese prendere forma ed espandersi nel corso degli anni. Nell’hangar del Plesso Due si trova una delle tante officine: l’ambiente è vasto, potrebbero entrarci almeno 40 pullman, ma al momento ce ne sono solo due, bloccati da grandi morse blu. Hanno alcuni problemi elettrici da sistemare, racconta il tecnico in servizio in quel momento. Uscendo dall’hangar arriviamo nell’ampio parcheggio mezzi, in cui ci sono diversi autobus a riposo. Alcuni hanno la carrozzeria che splende, perché sono nuovi di fabbrica e devono ancora essere immatricolati. 

In un angolo del parcheggio un pullman blu da dodici metri sta facendo rifornimento di metano liquido (Gnl o Nlg) da una grossa cisterna: una striscia gialla per terra avvisa che lì è vietato fumare. Il deposito Ferrarese ha 76 di questi bus, un bell’aumento dai 44 acquistati nel 2018 da Industria Italiana Autobus, la società che ha vinto la prima gara europea per bus a Gnl. Dietro il limite del deposito, contraddistinto ora da barriere verdi, sorgerà una nuova stazione di rifornimento, che sfrutterà anche il biometano prodotto dai rifiuti raccolti all’Aeroporto di Bologna e riciclati da Hera, in un perfetto sistema di economia circolare tra le tre aziende: l’accordo prevede una fornitura di oltre 450mila metri cubi di metano. Proseguendo la camminata torniamo nella zona che dà su via Ferrarese: qui c’è il piazzale che Bottazzi definisce «di triage», ammiccando alla pandemia di Covid19. Sono parcheggiati diversi veicoli con alcune problematiche, in attesa del loro turno di manutenzione. Lì accanto c’è la zona delle otto colonnine per la ricarica notturna («overnight», in gergo tecnico) dei mezzi elettrici, tutte vuote. Questa, viene spiegato, è un’ottima notizia, perché tutti i mezzi sono in servizio. Agli autobus overnight si aggiungeranno presto quelli opportunity della ditta olandese Vdl: ne sono previsti 21 totali e sette sono già stati consegnati. I mezzi overnight possono ricaricarsi al capolinea, assicurando così maggiore versatilità e autonomia tra le corse: basta una quindicina di minuti per ridare energia alla batteria. Alcune navette piccole, dalla carrozzeria cotta dal sole, ormai di un rosso slavato, catturano la nostra attenzione: sono i vecchi Pollicino di fine anni Novanta, che già allora sgusciavano tra le strette strade del centro storico, alimentati da motori elettrici. «Camminare per il deposito significa attraversare strati archeologici», osserva Bottazzi. «È un’archeologia dinamica, in continua trasformazione: quando abbiamo cominciato a usare il metano abbiamo riadattato e adeguato molti ambienti e abbiamo svolto un’attenta analisi di valutazione dei rischi. Adesso è la volta dell’idrogeno: Tper è persino in anticipo con le direttive dell’Unione Europea». 

Lo scorso 23 gennaio, infatti, è stata presentata la nuova società Tph2, che costituirà l’asse portante del progetto idrogeno di Tper, che mira alla decarbonizzazione del trasporto pubblico, in piena linea con la vetrina di Bologna città climaticamente neutrale entro il 2030. La scelta di puntare sull’idrogeno verde risponde all’obiettivo 7 dell’Agenda 2030 sull’energia pulita e accessibile e, a livello locale, con la volontà della Regione EmiliaRomagna di realizzare una hydrogen valley che riadatti e valorizzi fabbriche e aree industriali dismesse. Già nel corso del 2024 la flotta Tper riceverà 34 autobus a idrogeno a tecnologia fuel cell, che arriveranno a 127 entro la fine del 2026, andando a costituire il dodici per cento della flotta totale. La fuel cell, o pila a combustibile, consente la produzione di energia elettrica direttamente dall’idrogeno tramite reazioni elettrochimiche, senza che avvenga il processo di combustione termica all’interno del motore. L’unico prodotto di scarto è del semplice vapore acqueo. Mentre la normale batteria elettrica immagazzina energia, la pila a combustibile è un semplice convertitore: l’energia, infatti, è immagazzinata nel serbatoio di idrogeno. «La scelta dell’idrogeno non vuole essere la soluzione definitiva, ma si inserisce in un mosaico di soluzioni e di sistemi diversi. Ciascuno ha la sua validità a seconda dell’autonomia di servizio, della dislocazione delle sedi, dei tempi e dei punti di rifornimento», assicura Andrea Bottazzi. «Il nostro obiettivo è affrancarci da diesel e benzina, non solo con i mezzi a idrogeno, ma anche con quelli elettrici e filoviarizzati già presenti». Lo scopo, in ultima istanza, è sempre quello di assicurare il miglior trasporto possibile, come mostra anche il progetto Pinbo (Progetto integrato della mobilità bolognese), che assicurerà filobus full electric entro la fine del 2024. «Per le corse urbane avremo solamente mezzi elettrici, tram e filobu Per quelle suburbane, per la transizione Net Zero 2050 puntiamo sull’idrogeno. In fase transitoria, anche oltre il 2040, useremo, accanto all’idrogeno, biometano e bioGnl. L’idrogeno ci sarà utile anche per le tratte extraurbane, in cui affiancherà il Gnl: su tratte così lunghe l’elettrico è assolutamente improponibile». L’impegno pluriennale verso le innovazioni ambientali è valso il riconoscimento Istat del 2019 come flotta più sostenibile su gomma. 

Nello stesso piazzale del «triage» sorge un massiccio gruppo di edifici, che ospitano le officine più grandi, distinte in base al tipo di manutenzione: pesante, programmata e delle gomme. In questa sezione ci sono decine di copertoni e di cerchioni, assieme al grosso apparecchio necessario a montarli e gonfiarli. In un’altra sala un autobus mostra le sue viscere metalliche: tubi e cavi che si torcono gli uni sugli altri e che costituiscono il cuore del veicolo. Lì accanto un operaio si aggira attorno a un altro mezzo: il rosso ormai è sbiadito e una grossa macchia bianco-giallastra chiede di essere coperta. In questa zona addetta alla verniciatura la carrozzeria dei pullman torna come nuova. L’ultima sala è quella delle cosiddette fosse: una novità già presente nel 1985 al deposito Due Madonne e poi ripresa non solo da Ferrarese, ma anche da altre società di trasporto. Grazie a un sistema di dislivelli il tecnico, che si trova al livello inferiore, può lavorare comodamente alla riparazione del bus, posto sul piano superiore. I rischi per la sicurezza sono fortemente ridotti, perché non occorre sollevare il mezzo, che è invece fermo e saldo al proprio posto. La continua manutenzione è utile anche a prevenire spiacevoli incidenti, da problemi di frenatura o avaria ai più scenografici e pericolosi incendi del mezzo.

Al termine della visita Andrea Bottazzi, il nostro Virgilio, ci riaccompagna verso l’ingresso. Facciamo un’ultima domanda sul futuro tram: via Ferrarese non sarà la sua casa. La sua gestione, compreso il deposito che sorgerà a Borgo Panigale in zona La Pioppa, è interamente competenza del Comune. «Il nostro compito sarà quello di armonizzare e rendere compatibile la flotta Tper con le linee tramviarie. Abbiamo già modificato in tal senso alcuni nostri progetti: nell’ambito del progetto Pinbo, la linea 20 verrà interamente filoviarizzata con mezzi da diciotto metri, perché raggiungerà zone non toccate dal tram». Le quattro linee del tram costituiranno l’asse portante della mobilità urbana e metropolitana e le linee su gomma costituiranno un’essenziale integrazione alla rete viaria: anche quando Bologna avrà i suoi tram non ci dimenticheremo affatto dei tradizionali autobus, che, alla fine, non sono poi così retrò.

 

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