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Foto di Chiara Scipiotti

In Iran si muore per un capello fuori posto, per un velo indossato in modo “improprio”, per un pantalone troppo stretto, per uno sguardo troppo prolungato. Si muore per un’idea, per un pensiero, per un’opinione. Qui vive e prospera il Grande Fratello (il dittatore idealizzato e immaginato da George Orwell in 1984), che nel tempo si è adattato: ha cambiato nome, volto, ruolo e identità. Il suo potere travalica i confini del romanzo ed entra nelle cronache dei giornali di tutto il mondo. Dal 16 settembre si parla di Mahsa Amini, la ragazza curdo-iraniana di 22 anni, fermata – mentre passeggiava con il fratello – dai membri del Basij, la polizia religiosa (istituita dall’ayatollah Khomeini dopo la rivoluzione del 1979, che ha portato all’abdicazione di Mohammad Reza Pahlavi, l’ultimo degli scià) il 13 settembre 2022 a Teheran, e morta appena tre giorni dopo. Il crimine di cui è stata accusata è l’inottemperanza della legge sull’obbligo dell’hijab (il velo) introdotta nel 1981 sempre per volere dell’ayatollah. La pena per chi trasgredisce è 74 frustate o, a seconda della gravità dell’inosservanza, la detenzione da un mese a un anno. La morte non è contemplata fra le pene riportate nel decreto ufficiale, eppure è accaduto. Secondo il governo iraniano le cause del decesso della ventiduenne sarebbero imputabili a un infarto o alle complicazioni legate a una malattia pregressa; il referto dei medici dell’ospedale di Kasra, nella capitale iraniana, invece, delinea chiaramente il quadro del pestaggio: lividi, ematomi e tracce di sangue derivanti da un’emorragia cerebrale. Il tentativo del regime, guidato da Ebrahim Raisi (ottavo presidente della Repubblica Islamica dell’Iran e seconda carica dello Stato) e dalla “Guida Suprema” Ali Khamenei, è quello di mascherare l’accaduto, per evitare che la polveriera su cui l’intero Paese poggia possa definitivamente esplodere. Da quattro mesi – della morte di Masha Amini – le donne e gli uomini che protestano contro le atrocità della tirannia subiscono torture di ogni tipo. Gli uomini del Basij stuprano e uccidono indistintamente donne, uomini e bambini. Emblematica è la storia di Armita Abbasi, arrestata il 22 ottobre per aver pubblicato dei post contro il governo. La ventiduenne – come riportato dalla “Cnn” – è finita in ospedale a causa dei ripetuti abusi. Secondo l’Ispi (l’Istituto per gli studi di politica internazionale) dall’inizio delle proteste ad oggi le vittime sono 520, di cui 70 bambini. Gli arresti ammontano a 19 mila. Il simbolo della lotta al regime è il taglio delle ciocche di capelli. Un gesto che racchiude in sé la rabbia e che le donne iraniane accompagnano con le parole «Zhen, Zhian, Azadi!», «Donna, Vita e Libertà!»; un peana, un canto di guerra ripreso e intonato dalle donne di tutto il mondo, unite nella lotta alla repressione.

 

Nell'immagine una delle proteste della comunità iraniana a Bologna. Foto di Chiara Scipiotti