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Dopo più di centotrenta giorni dall’inizio dalla rivoluzione in Iran, la comunità iraniana non smette di lottare in tutto il mondo, ripetendo «Donna, vita, libertà»: per celebrare chi ha perso la vita, per chiedere giustizia, per protestare contro un regime che non vuole. Anche a Bologna le manifestazioni innescate dalla morte di Mahsa Amini proseguono, ravvivate della morte di Mehdi Zare Ashkzari, l’ex studente di farmacia all’Alma Mater deceduto dopo venti giorni di coma per le percosse subite in carcere.
Queste proteste non sono le prime in quarant’anni di regime teocratico; ma sono le più diffuse, le più partecipate e, soprattutto, quelle che hanno avuto più risonanza nel resto del mondo, con centinaia se non migliaia di donne che si sono tagliate una ciocca in ricordo di Mahsa, arrestata dal regime a causa dei capelli che le spuntavano dal velo. «Ciò che è diverso stavolta è che se ne parla tanto, ovunque: quando parla l’intero Occidente, qualcosa deve succedere», riflette Sohyla Arjmand, ristoratrice e storica attivista bolognese per i diritti umani. Arjmand si è trasferita in Italia quarant’anni fa per studiare, poi non è più tornata in patria; il fratello e la sorella sono stati uccisi dal regime, negli anni Ottanta. «Siamo arrivati a un punto in cui non possiamo più tornare indietro», aggiunge Hossein, un uomo iraniano che invece vive a Bologna dal 2018. «Se ci fermiamo, il regime sarà sempre più violento. Non c’è una strada per tornare a come erano le cose prima, dobbiamo continuare».
Lavorare insieme, però, non è sempre facile. Quarant’anni di regime non hanno solo limitato i diritti della popolazione iraniana, ma ne hanno anche cambiato la cultura, alimentando la reciproca diffidenza. La paura di essere traditi è costante nella vita degli iraniani espatriati, rendendo difficile la nascita di comunità locali solide. «Quando sono iniziate le proteste, un collega di lavoro mi ha chiesto di mandargli alcune foto dell’evento. Era una gentilezza, sono certa che non ci fosse niente dietro», racconta per esempio Parya, una donna iraniana di quarant’anni, approdata in Italia dopo aver vissuto in India e in Cina. «Però comunque parte di me si chiedeva: “Potrebbe usare queste foto contro di me?”» Il tradimento non sembra essere un timore infondato: il volto di Hossein, uno degli organizzatori più attivi delle proteste a Bologna, è finito sulla televisione iraniana, e adesso non può più tornare a casa. «Io non avevo detto a mia madre che avrei partecipato alle manifestazioni qui a Bologna, mi ha visto lei in tv. C’erano delle spie», racconta, e lo fa sorridendo.
Secondo la comunità iraniana, anche nell’ambiente universitario ci sarebbero connazionali che supportano il regime e alcuni sarebbero in qualche modo suoi “informatori”. Tre mesi fa è stata creata dagli attivisti una petizione su Change.org per espellere dall’Università di Bologna una studentessa di fisica iraniana, molto attiva sui social e apertamente favorevole al regime. Tra le motivazioni della petizione sono inclusi il suo presunto supporto al governo islamico, l’idolatria del generale Soleimani e alcuni commenti derisori che la ragazza avrebbe fatto sulle persone che piangono i propri cari uccisi. La petizione si avvicina alle 10.000 firme, l’obiettivo fissato.
Da parte degli iraniani di Bologna si è fatta sempre più forte la richiesta di attenzione e sostegno alle istituzioni italiane, locali e nazionali, compresa l’Alma Mater, da qualcuno inizialmente accusata di non esporsi a sufficienza. Si chiede un supporto non solo formale, ma, per quanto possibile, concreto. Il 5 gennaio, in piazza, il rettore Giovanni Molari è stato anche contestato, durante un evento in ricordo di Zare Ashkzari. Lo stesso Molari, dopo la morte del giovane, aveva espresso «cordoglio alla famiglia e la solidarietà a tutti gli iraniani che, anche nelle Università, stanno lottando». Ma un segnale più deciso è stato l’invito dell’Ateneo alla fumettista, regista e sceneggiatrice Marjane Satrapi (autrice del fumetto Persepolis) all’inaugurazione dell’anno accademico, il 20 febbraio.
Le manifestazioni hanno ottenuto insomma un primo, seppur piccolo, effetto. Il clima, però, si incendia sempre più. Mesi fa, molti iraniani che vivono in Italia si sarebbero accontentati di dichiarazione ufficiale da parte del governo contro la repressione violenta: «Non dico supportare la rivoluzione, capisco che non si possa fare. Ma almeno dire che non si possono ammazzare le persone per strada perché manifestano in pace», obiettava Hossein a dicembre, dopo un flash mob contro la pena di morte. Nelle ultime settimane, ormai, per i manifestanti le parole non bastano più: «Non ci basta chiamare l’ambasciatore, chiudete quel maledetto posto», ha detto Sohyla Arjmand all’evento in ricordo di Zare Ashkzari. «Noi non siamo al sicuro neanche qua, in Italia. Non saremo mai al sicuro finché l’ambasciata sarà aperta», continua, riferendosi all’ambasciata iraniana in Italia. Anche Virginio Merola, ex sindaco di Bologna e ora deputato Pd, si è schierato al fianco delle proteste, partecipando a un corteo, il 21 gennaio: «Il governo dovrebbe aumentare le sanzioni, in particolare sulle armi. Inoltre – ha aggiunto – è necessario isolare internazionalmente la dittatura iraniana, a cominciare da una rottura delle relazioni diplomatiche».
L’unico modo per tornare a essere liberi, riflette Hossein, è tornare indietro di cinquant’anni, ai tempi prima della rivoluzione: tempi in cui le donne avevano diritto di voto e di scelta per l’hijab, e non c’erano censura o controllo dei social network. «Prima o poi – aggiunge Parya – questo regime dovrà andarsene: prima accade, minore sarà il prezzo che pagheremo tutti. Economico e di sangue».
Nell'immagine, una manifestante iraniana vestita come un personaggi de Il racconto dell'ancella, romanzo di Margaret Atwood. Foto di Chiara Scipiotti