Giustizia

Processo Amato

Il momento della lettura del dispositivo della sentenza di primo grado (tutte le foto sono di Gianni Schicchi)

 

Il 9 ottobre 2021 Giulia Tateo viene trovata morta nel suo letto nel quartiere Murri a Bologna. La donna, 87 anni, giace su un fianco, la stanza immersa nel buio. A trovarla è il nipote Nicola Amato, che vive nell’appartamento adiacente collegato da una porta interna. L’età avanzata, un recente intervento, tutto fa pensare a una morte naturale. Ventidue giorni dopo, nello stesso edificio di via Bianconi 6, nell’appartamento comunicante, viene trovata senza vita Isabella Linsalata, 62 anni, ginecologa, figlia di Giulia Tateo. La scena è identica: anche lei è nel letto, le coperte rimboccate, la tapparella abbassata a metà. In entrambi i casi nessun segno di violenza, nessun testimone. Madre e figlia sembrano essere morte nel sonno, a tre settimane di distanza l’una dall’altra. Nei corpi delle due donne verranno poi rintracciati il sevoflurano, un anestetico inalatorio usato in ambito ospedaliero, e il midazolam, un potente sedativo. L’unica persona presente in casa oltre alle due donne, sia la notte dell’8 ottobre che quella del 30, è Giampaolo Amato, genero di Tateo e marito di Linsalata. L’uomo da tempo non conviveva più con la moglie e si era trasferito nello studio al piano terra dello stesso stabile. Stimato medico oculista, Amato è di turno in ospedale la mattina dopo entrambe le morti, come attestano i registri d’entrata. Sarà lui a trovare il corpo della moglie, su insistenza della cognata Anna Maria Linsalata, preoccupata per l’assenza insolita di Isabella alla messa domenicale.

Proprio la sorella della vittima diventerà un elemento chiave: è lei a insistere per fare l’autopsia, che rivelerà l’intossicazione da farmaci su cui si apriranno le indagini. Al contrario, il marito di Isabella sosteneva che la moglie voleva essere cremata, volontà di cui però nessun altro familiare era a conoscenza.

L’8 aprile 2023 Giampaolo Amato viene arrestato con l’accusa di omicidio. Inizialmente solo per quello della moglie, poi si aggiunge anche quello della suocera. Va a processo e il 16 ottobre 2024 arriva la condanna in primo grado all’ergastolo: il medico, è il ragionamento dei giudici, era l’unico presente in casa, era in possesso delle chiavi dell’appartamento di sopra, aveva accesso e conoscenza dei farmaci ritrovati nel corpo delle due donne. E aveva un motivo per farlo, sostiene la sentenza. Amato ha sempre respinto le accuse: «Sono innocente, non ho ucciso nessuno», sostenendo che la moglie soffriva di depressione e prendeva dei farmaci, ai quali aveva facilmente accesso essendo lei stessa medico. Il prossimo 29 settembre si aprirà il processo d’appello e l’imputato, in vista del dibattimento di secondo grado, ha cambiato i difensori e scelto due pesi massimi dell’avvocatura, Franco Coppi e Valerio Spigarelli, noti per aver assistito anche Silvio Berlusconi e Giulio Andreotti. Il ricorso della difesa punta a dimostrare che la decisione dei giudici è basata su «una sequenza di errori logici e di giudizio senza nessun riscontro diretto».

Uno degli indizi contro Amato è una bottiglia di vino conservata da Anna Maria Linsalata. Nel 2019, Isabella si sente male dopo aver bevuto del vino offertole dal marito e la sorella, che quella sera era in casa Amato, decide di tenere la bottiglia, per poi consegnarla dopo il decesso ai carabinieri. Le analisi hanno rilevato residui degli stessi farmaci trovati nel corpo della vittima. Questa testimonianza si somma al racconto dei vari episodi di narcolessia di Isabella, ai sospetti che il marito la drogasse, e alla conferma del test delle urine fatto nel 2019, positivo alle benzodiazepine. La testimone ha riportato in aula varie conversazioni allarmanti con la sorella. «Isa, non è che Giampa ti dà qualcosa?». «Le tisane che mi prepara sono amarissime». «Il risultato del test delle urine era molto grave, ma lei si raccomandò "di non fare niente, non voglio rovinare la vita ai miei figli».

Dalle indagini emerge poi che l'app "salute" sullo smart watch e sul telefono di Amato registrano movimenti insoliti nelle notti in cui sono morte le due donne. L’uomo, nella notte tra l’8 e il 9 ottobre, sarebbe salito di un piano dal suo studio all’appartamento della suocera alle 23.03, all’1.01, all’1.48, alle 04.48, alle 5.56, alle 6.15 e alle 7.06. Sette volte. In tutto ottobre sono state registrate soltanto altre due salite notturne, il giorno in cui è morta la moglie. A pochi giorni dal decesso di Linsalata, Amato torna a vivere nell’appartamento al piano di sopra, dove abitava la moglie e i figli. La morte di Giulia Tateo e di Isabella Linsalata sono legate da un filo che appare sempre più chiaro con l'avanzare delle indagini. Secondo i giudici l’assassinio della suocera sarebbe stato una sorta di «prova generale» dell'omicidio della moglie. La sentenza della Corte presieduta da Pierluigi Di Bari, lunga 283 pagine, tratteggia un quadro cupo della psicologia dell’imputato e dei suoi legami familiari. Dietro l'immagine impeccabile di Giampaolo Amato – medico rispettato, padre affettuoso, uomo apprezzato da colleghi e amici – si nasconde, a detta della Corte d’Assise di Bologna, una «personalità manipolatrice» che lo ha portato a compiere un duplice omicidio premeditato.

Tra i vari tasselli emersi dalle indagini, il rapporto extraconiugale con una donna più giovane, del quale erano a conoscenza sia la moglie che i figli. La coppia per anni aveva mantenuto in piedi il matrimonio, nonostante i figli rinfacciassero al padre di aver distrutto la famiglia. Quando è morta Linsalata, i due avevano appena avviato la pratica per la separazione. Intanto l’amante chiedeva ad Amato di rompere ogni legame familiare, prospettiva che però gettava nell’angoscia l’uomo. L’amante dell’oculista ha detto parlando di Amato: «Aveva sfoghi di rabbia, non mi piacevano la sua insistenza, le telefonate, le mail, due volte si è presentato sotto casa mia e altrettante mi ha bloccata fisicamente. Era ossessivo».

Il movente del delitto sarebbe proprio, secondo l’ipotesi di accusa accolta dalla Corte, il desiderio di liberarsi del “peso” del matrimonio, mantenendo intatta la sua esistenza, caratterizzata da una pressione psicologica profonda.

Sempre secondo l’accusa, la separazione avrebbe anche inflitto al medico una perdita di tipo economico, perché lo studio in cui viveva sarebbe passato sotto la titolarità dei figli. La sentenza descrive un uomo paralizzato tra due mondi. Per oltre tre anni, Amato avrebbe vissuto in una spirale di promesse non mantenute, bugie, ritorni in famiglia dopo brevi abbandoni. «È in questa sofferta e invischiata incapacità di lasciare il nucleo familiare – si legge nella sentenza – che va ricercato uno degli elementi chiave del movente».

Amato è stata l’ultima persona ad aver visto in vita Isabella Linsalata. Stando alla sua testimonianza, la sera del 31 ottobre la moglie sarebbe rientrata a casa da una cena e sarebbe scesa nel suo studio per farsi controllare un occhio che le dava fastidio. Sempre secondo la ricostruzione dell’imputato, i due si sarebbero intrattenuti per una breve chiacchierata, per poi salire al piano superiore e lì salutarsi. L’accusa sostiene invece che una volta scesa nello studio, la donna sarebbe stata stordita dal marito e poi, incapace di opporsi, portata nel suo letto. Lì il mix di farmaci somministratole le avrebbe provocato la morte per asfissia. I giudici hanno sposato questa tesi e riconosciuto nel comportamento di Amato un «preciso e studiato piano criminoso».

La morte della suocera e della moglie sarebbero due fasi distinte di un piano volto a rimuovere tutti gli ostacoli che si frapponevano alla sua relazione. La sentenza: ergastolo, un anno e mezzo di isolamento, risarcimento di 750mila euro alla sorella di Isabella Linsalata e di 230mila euro al fratello di Giulia Tateo. I due figli, invece, non si sono costituiti nel processo contro il padre, ma sono stati sentiti come testimoni in aula.

Dopo l’estate si apre una nuova partita processuale, nella quale Amato ribadirà davanti a giudici diversi la sua innocenza. In un articolato atto di appello i difensori Coppi e Spigarelli hanno smontato punto per punto le motivazioni dell’ergastolo: secondo loro i giudici hanno costruito una narrazione basata su deduzioni «non sostenute da alcun elemento di prova».

La nuova difesa stigmatizza la motivazione economica, sostenendo che Amato non aveva alcun interesse a uccidere, avendo già accettato la separazione dalla moglie e rinunciato all’eredità. Oltre a questo, definiscono la sentenza di primo grado animata da «un furore sanzionatorio», e sostengono la tesi dell’autosomministrazione dei farmaci da parte di Isabella Linsalata, non sussistendo «una prova conclusiva del fatto che l'assunzione di sevoflurano sia avvenuta per iniziativa dell'imputato». Per questo hanno richiesto una nuova perizia scientifica che, se concessa, può rappresentare un punto di svolta.

 

L'articolo è tratto dal Quindici n. 5 del 12 giugno 2025